"La verità non esiste!!!
La verità è solo ciò che si riesce a dimostrare".
Il Vasari tramandandoci la celebre frase sullo stendardo, «cerca trova» citata anche da Dan Brown nel Codice Da Vinci e vergata all’interno di una bandiera dell’affresco che celebra la vittoria di Cosimo de Medici in Val di Chiana, ha contribuito a tener viva la scintilla sulla sete di conoscenza e voglia di sapere. È lo stesso movente che Dante Alighieri nella Divina Commedia nel canto XXVI dell’Inferno attribuisce a Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”, ponendo nella conoscenza il presupposto base per la valutazione di una persona.
Ed il fatto che diversi studiosi si sono cimentati sul tema ma giungendo a ipotesi diverse e non definitive, mi ha spinto a pensare che ci fosse spazio anche per una personale interpretazione, per tener vivo l’interesse ed indurre a continuare le ricerche per scoprire la verità sulla storia vissuta dai protagonisti che hanno animato quel misterioso periodo.
Pertanto con questo studio e personale ipotesi, cercherò di far strada alla verità che, l’ingegnere Maurizio Seracini, responsabile della ricerca del 2012 sugli affreschi del Vasari, ci ha promesso di rivelare: “Preferisco non replicare a certe argomentazioni, anzi a certe polemiche, perché io mi considero un uomo di scienza e la scienza predilige il confronto allo scontro. Sono sereno, verrà anche il mio tempo, quello in cui pubblicherò i risultati delle mie ricerche, dal 1975 al 2012, con cui, nei tempi e nei modi opportuni, illustrerò i dati oggettivi emersi e che quindi si potranno discutere in sede scientifica”.
LA CRONACA
Articoli e video
Articolo in Finestre sull'Arte, rivista online d'arte antica e contemporanea, redatto in maniera molto professionale da
Federico Giannini, Ilaria Baratta , e scritto il 16/08/2012.
L’articolo riassume brevemente i cinque anni di ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci nel Palazzo Vecchio di Firenze, con documentazioni ed articoli che vanno dal 2005 al 2012 .
https://www.finestresullarte.info/focus/battaglia-di-anghiari-riassunto-ricerca-leonardo-perduto
Video- Matteo Renzi
19.22.2018
Firenze secondo me - La battaglia di Anghiari -
Video -La Repubblica.
07.10.2020
Firenze “Leonardo non dipinse mai la battaglia di Anghiari” a dirlo un pool di studiosi.
E il muro in cui aveva preparato lo stucco a base di olio e calce in vista con la pittura con tutta probabilità fu demolito poco dopo”. A queste conclusioni è arrivato un pool di esperti durata quasi sei anni riportata in un volume di 610 pagine dal titolo” La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo Da Vinci. Dalla configurazione architettonica dell’apparato decorativo’, pubblicato dalla casa editrice fiorentina Olschki, a cura di, Roberta Barsanti, Gianluca Belli, Emanuela Ferretti, e Cecilia Frosinini.
Francesca Fiorani, docente di storia dell’arte moderna dell’University of Virginia.
Articolo di Vittorio Sgarbi pubblicato l’11.10.2020 sul Quotidiano del sud riportato nel seguente Link
Si chiude la cronaca con i passaggi più importanti riportati nell’articolo in Finestre sull'Arte, rivista online d'arte antica e contemporanea, redatto in maniera molto professionale dalla Redazione , il 12/04/2021,
“Nel 1503, Leonardo da Vinci fu incaricato dalla Repubblica di Firenze di dipingere un grandioso affresco raffigurante la Battaglia di Anghiari in Palazzo Vecchio. Quell'opera non sarebbe mai stata realizzata.
Nell’ottobre del 1503, la Repubblica di Firenze commissionò a Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519) la realizzazione di un grande affresco che avrebbe dovuto decorare una delle pareti del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, sul tema della battaglia di Anghiari. Sulla parete opposta, Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564) avrebbe invece dipinto un’altra scena di guerra, la battaglia di Cascina. Si trattava di un incarico di grande prestigio e di elevato valore simbolico: la Repubblica intendeva infatti celebrare gli eventi che avevano sancito il trionfo di Firenze sui suoi nemici, e intendeva farlo nell’ambiente più grande (54 metri di lunghezza per 23 di larghezza e 18 di altezza) e più prestigioso della sede del potere cittadino, il Salone dei Cinquecento, all’epoca il “Salone del Maggior Consiglio”, ovvero il locale dove si tenevano le sedute del Maggior Consiglio della Repubblica, istituzione composta da cinquecento cittadini fiorentini (una sorta di Parlamento) e fondata negli anni in cui il potere era de facto detenuto da Girolamo Savonarola, che commissionò anche la realizzazione dell’ambiente, costruito tra il 1495 e il 1496, in soli sette mesi, su progetto di Simone del Pollaiolo detto il Cronaca e Francesco di Domenico.
L’idea di far decorare la sala con gli episodi delle battaglie vinte in passato dai fiorentini era stata del gonfaloniere della Repubblica (ovvero la massima carica dello Stato), Pier Soderini, che chiamò pertanto l’affermato Leonardo e l’emergente Michelangelo, separati da ventitré anni d’età. Si trattava di un’operazione estremamente impegnativa, date le dimensioni dell’ambiente e la novità del soggetto, tanto che alla fine né Leonardo né Michelangelo riuscirono a portare a termine l’impresa: il primo perché fallì nel tentativo di sperimentare, come si vedrà, una particolare tecnica realizzativa, il secondo perché abbandonò il progetto prima di portarlo a termine, lasciando Firenze per trasferirsi a Roma.
[…]
Spinti dall’idea che Leonardo avesse provato a dipingere su parete la Battaglia di Anghiari, molti si sono domandati che fine avessero fatto gli eventuali resti del murale:
Eppure, nonostante non ci fosse alcuna evidenza che nel Salone dei Cinquecento fosse sopravvissuto qualcosa di Leonardo, nel 2007 fu dato il via a una campagna d’indagini, guidata dall’ingegnere Maurizio Seracini, fondatore del Center of Interdisciplinary Science for Art, Architecture and Archaeology dell’Università di San Diego in California, che aveva l’obiettivo di riportare alla luce la Battaglia di Anghiari. Secondo Seracini, Vasari avrebbe agito in modo da conservare il dipinto di Leonardo dietro il suo affresco, quello raffigurante la Battaglia di Scannagallo. La campagna cominciò dapprima con studi non invasivi, dopodiché, nel 2011, si passò alla fase operativa: nell’agosto di quell’anno furono installati i ponteggi per consentire al team di Seracini di sondare la parete attraverso dei radar che avrebbero dovuto rilevare l’intercapedine che, secondo Seracini, nascondeva il dipinto di Leonardo (nell’ottobre l’affresco di Vasari fu effettivamente bucato, con un enorme strascico di polemiche e la contrarietà unanime della comunità scientifica). L’ingegnere basava la sua idea sulla presenza di questa intercapedine dietro all’affresco, e sulla presenza di alcuni stendardi con la scritta “Cerca trova”, malamente interpretato come un invito di Vasari a cercare l’opera di Leonardo, ma in realtà (e molto più semplicemente) un riferimento a un episodio della storia fiorentina legato alla battaglia raffigurata, come è stato spiegato ampiamente anche su queste pagine da Federico Giannini all’epoca dei fatti. Seracini prelevò alcuni campioni di colore, estratti bucando l’opera di Vasari, e si convinse di aver trovato i pigmenti “di Leonardo” (in realtà, all’epoca tutti gli artisti usavano gli stessi colori: non esistevano artisti che adoperavano pigmenti in esclusiva). L’Opificio delle Pietre Dure chiese di poter studiare i frammenti estratti, ma non li ricevette mai: si è poi scoperto che non erano materiali pittorici, ma elementi comuni nelle murature del tempo. Ad ogni modo, nel 2012 le ricerche si conclusero e a nessuno è più venuto in mente di tirar fuori dalla parete del Salone dei Cinquecento l’opera di Leonardo.
Che fine ha fatto dunque l’opera? La parola “fine” sulla questione è arrivata nell’ottobre del 2020. “Non c’è nessuna Battaglia di Anghiari sotto il dipinto del Vasari nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio”: questa la dichiarazione di Cecilia Frosinini, a seguito di un convegno i cui risultati sono stati pubblicati nel libro La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Dalla configurazione architettonica all’apparato decorativo, del 2019 ma presentato l’anno successivo. I nuovi studi, come ricordato sopra, sono giunti alla conclusione che Leonardo non dipinse mai la battaglia sul muro della sala, nonostante sia provata e documentata l’esistenza dei cartoni. Purtroppo, la preparazione del muro non andò per il verso giusto, la Battaglia di Anghiari non fu mai dipinta, e per anni si è cercato di tirar fuori dal Salone dei Cinquecento un’opera inesistente”.
LA CRITICA
Documentazione su alcuni studi, ricerche e pareri fino ad ora formulati.
http://https://www.leonardodavinci-italy.it/pittura/tecnica-encausto
Leonardo Da Vinci.
Tecnica dell’encausto
[…]
“Periodo 30 a.c.
Successivamente all'episodio di Alessandro Magno, si trovano tracce di questa tecnica che ci portano alla civiltà Egizia d'età romana, quando l'Egitto, dopo la morte di Cleopatra, diventa territorio acquisito da Ottaviano Augusto.
Nel secolo scorso dopo molte ricerche sono stati portati alla luce molti reperti, circa 600 ritratti funebri, estremamente curati nel dettaglio, dipinti direttamente su tavole di legno molto duro, come ad esempio quello di tiglio, sicomoro, quercia, cipresso, cedro, fico, la maggior parte importato dall'Asia minore.
Alcuni dei ritratti sono dipinti da entrambi i lati e, molto probabilmente, alcuni di essi sono stati fatti quando la persona era ancora in vita.
Questi ritratti erano dipinti direttamente sui sarcofagi altri invece riproducevano, su piccole tavolette, il volto del defunto o dei suoi cari. (Fig.2)
L'encausto (o incausto) è un'antica tecnica pittorica che veniva applicata non solo sulla parete (utilizzata anche da Leonardo da Vinci che vedremo nel proseguo della pagina), ma anche su materiali diversi come ad esempio sul marmo, terracotta, legno, avorio e sulla tela.
I pigmenti vengono mescolati a cera punica, una cera d'api saponificata proprio per utilizzarla in maniera più fluida che veniva preparata facendo bollire varie volte la cera d'api dentro l'acqua di mare e poi, raggiunta l'ebollizione, si aggiungeva il nitrum, una miscela costituita principalmente da carbonato di sodio e idrossido di sodio, per creare una amalgama consistente che fungeva da collante naturale.
L'impasto una volta raggiunto il suo livello di amalgama, veniva posto dentro un contenitore molto ampio riscaldato da un braciere alimentato da carbone e fascine, in modo tale da riportarlo ad uno stato il più possibile liquido, uno stato necessario per poterlo distendere sulla superficie da dipingere.
Raggiunto uno stato semi-liquido si procedeva con la "stesa" col pennello o, più spesso, una piccola spatola.
I ritratti possono essere suddivisi in due gruppi a seconda della tecnica utilizzata (encausto o tempera a base di uovo). Non mancano tuttavia esempi di utilizzo di altre tecniche, a volte ibride.
Con la tecnica dell'encausto utilizzata per dipingere i ritratti, si otteneva un effetto cromatico decisamente vivo e brillante, tanto da rendere l'immagine dipinta molto simile al vero.
Sono stati usati addirittura "le foglie d'oro" per sottolineare i gioielli portati dal defunto, come ad esempio piccoli orecchini e bracciali, compresi alcuni collari in oro particolarmente decorati.
La bellezza di questa tecnica si evince anche nel vedere alcuni ritratti fatti direttamente sulle tele e sulle bende che avvolgevano le mummie, ove vi era raffigurato il volto del defunto, cosi come è possibile ammirare presso il Museo Egizio del Cairo e al British Museum.
La cura del volto era fondamentale per gli egizi, che vedevano nel viso dell'essere umano, il potere simbolico della sua forza e in modo particolare nei suoi occhi, considerati lo specchio profondo della coscienza.
L'encausto a Pompei
Anche nella città di Pompei vi sono tracce di questa tecnica, cosi come testimoniato anche da Plinio il Vecchio nei suoi scritti rinvenuti all'interno di una casa pompeiana.
Descrive alcune opere pittoriche su parete, presenti proprio in città, che descrivono momenti della vita pompeiana e ne rimane affascinato per l'utilizzo dei colori e per l'impatto cromatico che essi producono. (Fig. 3)
Traduzione del testo di Plinio, ripresa anche da Vitruvio, della tecnica dell'encausto
I pigmenti venivano mescolati con colla di bue, cera punica (ovvero cera vergine fatta bollire in acqua di mare) e calce spenta, per sgrassare la colla: si ottiene una tempera densa, da diluire eventualmente con acqua. Una volta asciutta la tempera, la si spalmava con cera punica sciolta con un po' d'olio. Si scaldava quindi il supporto o con un braciere o con il cauterio, per far penetrare la cera fino al supporto. Infine, si passava alla lucidatura con un panno tiepido.
Le tecniche di pittura Pompeiane
- La pittura a fresco: eseguita su intonaco di calce fresca con colori macinati e diluiti in acqua.
- La pittura a tempera: eseguita diluendo i colori in solventi collosi e gommosi, con il rosso d'uovo e la cera.
- La pittura ad encausto: eseguita con colori miscelati con la cera.
La storia quindi ha portato sino a noi queste rappresentazioni e queste tecniche come appunto l'encausto e molto spesso, questa tecnica può essere confusa in quanto nel tempo altri artisti hanno operato sovrapposizioni con diverse tecniche da quella originale, sperando di interrompere il lento movimento di corrosione dei pigmenti, creando quindi difformità nei pigmenti e nelle tecniche.
La tecnica dell'encausto prevede tre tipologie di utilizzo:
- Lo stiletto
- La scavatura
- La scioglitura
1. Metodo dello stiletto
Si procedeva con la preparazione dei colori (polverizzati) e si univa una parte di cera, molto spesso resina di gomma, in modo tale da ottenere una miscela semi solida. La miscela veniva presa con lo stiletto e poggiata su piccolo braciere fino a renderla semi-liquida e con la spatola, detta appunto stiletto, e si procedeva con la "stesa" dei colori, e lisciandoli sulla parete o sul muro, con lo scopo di miscelarle direttamente con diversi passaggi.
Gli stiletti avevano diverse forme in funzione del loro scopo: vi erano gli schidioncini di metallo, da una parte appuntiti per incidere i perimetri delle forme da disegnare sul colore, dall'altra piatti o conici o a cucchiaino, per appiattire e far aderire il colore sulla superficie. Si procedeva quindi, a seconda delle esigenze, a plasmare il colore sul muro, a lasciarlo raffreddare ed eventualmente inserire modifiche che dovevano essere fatte entro poche ore dal raffreddamento.
2. Metodo della scavatura.
Questa tecnica veniva utilizzata soprattutto per la lavorazione sull'avorio.
Si scaldava lo stiletto portandolo ad alta temperatura sino a quando la sua estremità diventava rovente e si incideva l'eventuale disegno fatto precedentemente sulla parte di avorio, con gesti lenti e forzati al fine di creare righe profonde, simili a scanalature, che producevano leggere bruciature nei bordi al passaggio della punta. In questo caso, il colore che non copriva tutta l'area del disegno ma solo i suoi contorni, era composto anch'esso da cere semi solide precedentemente spalmato sull'avorio, a contatto col calore si fissava.
3. Metodo di scioglitura.
Venivano messi i pigmenti colorati, anch'essi polverizzati in precedenza e miscelati a resine naturali, sopra un piccolo braciere che aveva il compito di scaldarle e portarle ad una temperatura sufficiente per il suo utilizzo con un pennello, molto spesso fatto da peli di animale, spesso cinghiale o pavone.
Leonardo da Vinci e l'encausto: un totale fallimento
Nel periodo rinascimentale, pochissimi artisti hanno utilizzato la tecnica dell'encausto per il fissaggio dei colori sulla parete, preferendo il più classico affresco.
Leonardo da Vinci, al contrario dei suoi contemporanei, decise di affrontare questa tecnica per dipingere presso la sala dei cinquecento del palazzo della Signoria di Firenze, la famosa Battaglia di Anghiari.
Pier Soderini Gonfaloniere della città di Firenze, decise di far dipingere il salone dei cinquecento da due dei più grandi artisti del momento e, dopo diverse consultazioni, i nomi che emersero furono solo due: Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti.
È stato chiesto al Maestro Paternousto, uno dei massimi esperti italiani della tecnica ad Encausto, il suo punto di vista circa l'esecuzione di Leonardo che di seguito si sintetizza.
“Anche il Genio assoluto come Leonardo resta indifeso dalla sfortuna. La sfortuna è quel rivolo di acqua anziché invadere l’orto va diretto al mare.
Qualcuno molto vicino alla conoscenza della tecnica pittorica dell’Encausto doveva pur scrivere e divulgare la sua esperienza su questo annoso mistero mai scritto e divulgato su libri, dai tempi antichi a oggi.
La tecnica coinvolge in pratica, il misterioso trasporto del calore con il fuoco sulle stesure tramite i Cauterii.
Saper formulare la cera d’api che deve assolutamente contenere i i seguenti requisiti di:
- trasparenza
- resistenza al graffio
- e buona lucidatura,
- resistenza al calore
Proprio la resistenza e l'esposizione a forti fonti di calore, quasi sempre oltre 60 gradi necessari per lo scioglimento della stessa, contenere con il calore i colori fissati senza creare con il riscaldamento la sovrapposizione e dilagamento con colori già eseguiti. Occorre pensare alla compatibilità con supporti bagnati come l’intonaco adatto per l’affresco e supporti asciutti o rigidi come, marmo, tela, cotto, carta, legno, gesso e altro.
Ottima mescolanza con tutti i colori naturali anche di quei colori difficili da dominare con l’affresco del tipo: cinabro, nero avorio o di vite, alizarina, minio, bianco di piombo o titanio eccetera.
[…]
Non sappiamo chi abbia ideato l’encausto, enkaustos in greco, encaustus in latino, ovvero il dipingere a cera passandovi sopra il calore con apposti arnesi metallici detti cauterii.
[…]
Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia ricorda l’uso che ne fecero altri grandi artisti greci del IV sec. a.C., quali Apelle, Pausias, Polignoto di Taso, Kydias, ma non menziona l’origine o la provenienza della tecnica .
[…]
Leonardo inizia a dipingere su di questo nuovo intonaco di proporzioni grandi o piccole noi non lo sappiamo comunque con colori mesticati con la cera senza dubbio si parla di cera Punica e quindi a freddo.
Sapendo anche che per sublimare i colori con la cera e ottenere un giusto risultato doveva per forza maggiore adoperare il fuoco sulla superficie dipinta per ottenere la liquefazione della cera che ingloba e incorpora ogni singola particella di colore proteggendola dalla causticità della calce e il suo definitivo ancoraggio al supporto e quella lucentezza tipica della cera e dell’Encausto.
Non possiamo pretendere anche da un Genio Assoluto come Leonardo se non si conoscono e si posseggono in parte le giuste materie e procedure di esecuzioni pratiche.
[…]
Quindi a Leonardo mancava il supporto alla cera, la buona cera stessa e strumenti detti Cauterii.
[…]
In mancanza di queste conoscenze a Leonardo non rimaneva che adoperare il fuoco senza il contatto diretto con la superficie dipinta, nonostante tutto avesse adoperato il sistema dei bracieri senza il contatto sul dipinto, come avviene con i Cauteri.
[…]
Il disastro era dietro l’angolo, mi spiego: adoperando i bracieri facendoli passare davanti alla superficie dipinta a cera, il forte calore provocato dai bracieri alla parete, fa si che l’acqua contenuta all’interno dell’intonaco viene richiamata in superficie per evaporare invece trova ostacolata dalla pittura che con il calore si uniforma formando una compatta pellicola cerosa calda, da qui il dramma, ecco che l’acqua affiorata in superficie resta imprigionata tra l’intonaco e il dipinto creando cosi un cuscinetto d’acqua facilitando l’opera a scivolare giù.”
Secondo la versione a lungo ritenuta la più probabile, Leonardo avrebbe voluto sperimentare la tecnica dell’encausto. Invece di affrescare la parete, l’avrebbe dipinta a olio masticato con c’era punica sull’intonaco già secco, facendo poi asciugare la pittura con il calore sprigionato da due grandi pentoloni alimentati a legna.
L'uso della tecnica a olio, è confermato anche dai più antichi biografi di Leonardo.: Antonio Billi (circa 1518, in Pedretti 1968, p. 70) che afferma che Leonardo. "fu ingannato nello olio del seme del lino, che gli fu falsato".
Il racconto dell’Anonimo Magliabechiano afferma che “più basso il fuoco aggiunse e seccolla [la pittura, ndr], ma lassù in alto, per la distanza grande, non si aggiunse il calore e la materia colò”. In sostanza, la sala sarebbe stata talmente grande da rendere il calore non sufficiente a far asciugare la parte alta della pittura, così i colori in alto sarebbero colati sulla parte bassa rovinando irrimediabilmente tutto il dipinto.
Anche l’umanista Paolo Giovio, che, verso il 1526, precisa che "manet etiam in comitio curiae Florentinae pugna atque victoria de Pisanis praeclare ad modum, sed infeliciter inchoata vitio tectorii colores iuglandino oleo intritos singulari contumacia respuentis" - La lotta e la vittoria sui Pisani furono celebremente eseguite nell'assemblea della Curia fiorentina, ma purtroppo iniziata dal vizio dello stucco, i colori dell'olio di noce si sbriciolarono e sputarono una singolare ostinazione. (ed. Maffei, pp. 234 s.) Paolo Giovio (Como, 1483 - Firenze, 1552): “nella sala del Consiglio della Signoria fiorentina rimane una battaglia e vittoria sui milanesi, magnifica ma sventuratamente incompiuta a causa di un difetto dell’intonaco che rigettava con singolare ostinazione i colori sciolti in olio di noce”.
Video - arte&pittura
14.10.2020
Leonardo e la sua tecnica pittorica.
Che tecnica usava Leonardo Da Vinci per i suoi affreschi e quadri, come preparava i suoi colori.? Come concepiva le sue opere, una risposta viene da dalle ricerche esposte in questo video.
Video - Voyager - RAI 2,
19 marzo 2012
Stiamo per trasmettervi in anteprima ed esclusiva europea la “Ricerca della battaglia di Anghiari di Leonardo”.
Servizio trasmesso su Voyager - RAI 2, il 19 marzo 2012 - Sondaggi e studi per cercare, nel Salone del 500, in Palazzo Vecchio a Firenze, sotto un affresco del Vasari, la battaglia di Anghiari dipinta da Leonardo.
Nel cursore 15.30
“La sfida parte uno di fronte all’altro su due pareti contrapposte .
Leonardo annota in un taccuino il momento in cui da la prima pennellata a quello che nelle sue stesse intenzioni sarà il suo capolavoro. Queste sono le sue parole “addi sei di giugno 1505, in venerdì al tocco delle 13,00 ore cominciai a colorire il palazzo. Nel qual punto nel posare il pennello, si guastò il tempo il cartone si stracciò, l’acqua si versò e ruppesi il vaso dell’acqua che si portava e subito si guastò il tempo e piobbe fino a sera acqua grandissima e stette il tempo come di notte profonda”
Nel maggio del 1505 tornerà a Milano.
Qui finisce la storia ed inizia la leggenda”.
Nel cursore 17,37
“Certamente è rimasta ben visibile per oltre cinquanta anni nel salone del cinquecento al punto che nel 1549 il letterato fiorentino Anton Francesco Dovi in una guida turistica di Firenze ha scritto: ( salite le scale della grande sala, diligentemente date una visita ad un gruppo di cavalli ed uomini che vi parrà una cosa miracolosa)”
Nel cursore 24.05
“Le aspettative sono fuori ogni aspettative la ricompensa è gloria!! “ sembra vernice”
Nel cursore 24,20
“Inoltre il committente di Vasari, Cosimo de’ Medici amava moltissimo Leonardo al punto che nel 1513 la sua famiglia ha pagato una struttura di assi per proteggere dai soldati spagnoli quel che restava della battaglia di Anghiari. Cosimo è stato costretto a coprire la battaglia per motivi politici. La famiglia De’ Medici era tornata al potere e non si poteva lasciare la sala principale del palazzo del governo un opera che celebrasse la repubblica contro le signorie e comunque se Cosimo avesse potuto salvare il capolavoro di Leonardo lo avrebbe certamente fatto. Allora perché non avrebbe dovuto accettare l’idea che probabilmente Vasari gli propose nel momento in cui accetto l’incarico e si trovò davanti alla decisione più importante della sua vita un muro davanti a un altro muro a pochi centimetri”.
Nel cursore 48,05
“Soprattutto la presenza di gesso che Leonardo avrebbe usato probabilmente insieme a c’era per stendere l’intonaco su cui dopo avrebbe dipinto ad olio.”
Nel cursore 58,30
“La sorpresa è grande, vengono trovati piccoli frammenti di pigmento che alle analisi al microscopio sembravano compatibili con pigmento rosso”.
“L’attuale direttore dell’Opificium Delle Pietre Dure ha dichiarata che l’istituto ha visionato i risultati delle analisi chimiche e lì ha ritenuti corretti”.
“Le analisi hanno portato a due scoperte molto importanti.
La prima frammenti di materiale bianco lattiginoso piuttosto fluido. È carbonato di calcio e ricopre come un velo tutto quello che c’è sotto e quello che c’è sotto è materiale organico.”
“La seconda e più importante scoperta è l’individuazione di una superficie rossa che rappresenta una fluorescenza tipica della lacca un legante che è più assimilabile ad una pittura su tela che ad un affresco […]
Inoltre sul materiale rosso ci sono delle puntinatura nere. Sono tracce di materiale che è stato steso con un pennello. Il nero ha qualcosa di estremamente particolarmente. Un rapporto chimico fra manganese e ferro al suo interno, è invertito rispetto al normale. Non solo lo stesso rapporto così insolito è stato individuato in una recente pubblicazione del Louvre risalente al 2010 riferita a cosa? A Giovanni Battista ed alla Gioconda di Leonardo […] Questo rapporto tra manganese e ferro è riscontrabile il colore nero utilizzato da Leonardo ma c’è un'altra coincidenza che anima l’entusiasmo della comunità scientifica. La Gioconda è stata fatta a Firenze come la battaglia di Anghiari negli stessi anni nei quali Leonardo lavorava proprio alla battaglia di Anghiari.”
I lavori preparatori
Gli studiosi non negano che Leonardo lavorò ai cartoni preparatori dell’opera, ma non ci fu nessun dipinto. Anche perché «la preparazione del muro che doveva accogliere la Battaglia leonardesca fu un fallimento». E per decenni, dunque, è stato cercato un fantasma, correndo dietro a improbabili indizi romanzati. Come quel «Cerca, trova» dipinto da Vasari in uno stendardo del suo affresco e considerato erroneamente un indizio per rintracciare il capolavoro perduto di Leonardo. «Un’idea totalmente infondata — spiegano adesso gli studiosi —, perché la frase non ha nulla a che fare con Leonardo, ma è uno sfottò molto pesante, fatto da Vasari per conto di Cosimo, nei confronti dei fuoriusciti, i suoi avversari, come una replica al motto «Libertà vo cercando»: una ricerca vana, perché — questo il messaggio — i Medici non se ne sarebbero mai andati. Cioè: “hai cercato la libertà, ecco, l’hai trovata”».
Il «Nero della Gioconda»
Durante la presentazione del dossier, la studiosa Cecilia Frosinini ha poi ricordato le clamorose pecche della ricerca del 2011 e i fori sul dipinto del Vasari per svelare l’inesistente capolavoro di Leonardo. «Uno di quei tre famosi prelievi, tirati fuori bucando il lavoro del Vasari — ha detto Frosinini — fu magnificato come il ritrovamento del “Nero della Gioconda”. Ma non esiste alcun nero tipico di Leonardo: al tempo tutti gli artisti usavano gli stessi pigmenti, dal Medioevo fino alla metà del Settecento, con l’introduzione dei pigmenti di sintesi artificiale». Frosinini ha poi ricordato che i tre celebri prelievi, contestatissimi all’epoca da gran parte del mondo accademico internazionale, poi sono scomparsi. «L’Opificio delle pietre dure voleva analizzarli a fondo, ma non ci sono mai arrivati. In ogni caso, in base alle descrizioni delle analisi chimiche dei materiali rinvenuti, Mauro Matteini, il più famoso esperto chimico nel campo dei Beni Culturali, ha chiarito che non si trattava affatto di materiali pittorici ma semplicemente di elementi comuni a ritrovarsi in murature del tempo». L’evento è stato concluso dal direttore della Galleria degli Uffizi, Eike Schmidt. «Tra gli insegnamenti più preziosi del grande lavoro svolto — ha detto Schmidt — c’è il fortissimo richiamo al rigore della metodologia scientifica: uno strumento imprescindibile per affrontare ricerche su temi così importanti e delicati».
LA STORIA
Per capire al meglio quanto si vuol documentare con la presente ricerca è determinate far luce su alcuni aspetti socio politici e religiosi di quel periodo.
Dalla repubblica di Savonarola (1494-1498) a Pier Soderini gonfaloniere (1498-1512)
La lotta per il potere politico, economico e religioso a Firenze tra il XIV e XV secolo, ebbe come protagonisti la famiglia de’ Medici da un lato e i sostenitori della Repubblica dall’altro. Le fonti storiche raccontano che vicende sanguinose, assassinii, congiure e vendette, erano assai frequenti, quasi all’ordine del giorno e accadde che nel corso di quegli anni, le due fazioni si avvicendarono alla guida della città.
Il secondo periodo della repubblica di Firenze iniziò nel 1494, anno in cui Carlo VIII di Francia iniziò una spedizione militare in Italia, spinto dal desiderio di espandere i suoi domini.
A Firenze Piero de' Medici, che aveva accettato passivamente le esose condizioni del francese Carlo VIII (gli aveva ceduto i territori di Pisa, Sarzana e Livorno), fu rovesciato da una rivolta popolare che instaurò una repubblica.
A quel tempo a capo della chiesa cattolica c’era il Papa Alessandro VI, italianizzato Rodrigo Borgia.
In campo religioso Alessandro VI si dimostrò sempre un pontefice devoto e attento difensore dell'ortodossia.
lo descrissero come uno dei papi più importanti dopo San Pietro forse perché, come dice l’Avvenire: “Papa Borgia, fu senza dubbio uomo del suo tempo, con tutto il peso morale che ciò può comportare: e peccatore fin che volete. Ma fu anche un papa straordinario: avviò la riforma degli ordini religiosi, mostrando di aver compreso i mali della Chiesa del tempo (quelli che avrebbero condotto alla rivolta di Lutero).
A differenza di Papa Innocenzo VIII, che aveva aiutato la famiglia Medici, il nuovo pontefice Papa Alessandro VI era ostile all'illustre casato fiorentino.
Il Papa difese i diritti della Chiesa contro le prepotenze di duchi e baroni e dispose alcuni provvedimenti volti a migliorare la condizione morale di alcuni enti monastici.
Una delle prime conseguenze della fine dei delicati equilibri politici tra gli Stati italiani fu l'invasione francese dell'Italia, che ebbe come conseguenza l'espulsione della famiglia de' Medici da Firenze (novembre 1494). La caduta dei Medici a Firenze fu favorita anche dal predicatore domenicano Girolamo Savonarola, (1452-1498), che mentre Carlo VIII si avvicinava a Firenze, tuonò energicamente contro la remissività mostrata da Piero de' Medici, fratello primogenito del prelato; sembra che il Cardinale Giovanni de' Medici , figlio di Lorenzo Il Magnifico, avesse dovuto lasciare la città in incognito vestito da frate francescano.
Nel 1498, scomparso senza eredi Carlo VIII, salì sul trono di Francia Luigi XII d'Orleans. Uno dei primi atti del nuovo re fu quello di scacciare Ludovico Maria Sforza detto il Moro da Milano, ritenendosi l'erede legittimo del Ducato. Il Papa, intravide in questo atto grandi possibilità per il figlio Cesare, per cui si affrettò a concludere un'alleanza con il nuovo sovrano francese.
La repubblica instaurata a Firenze nel 1494,dopo l'abbattimento della signoria dei Medici, fu animata e ispirata da Girolamo Savonarola, un frate domenicano.
Alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492 la città fu travolta dalle prediche di Girolamo Savonarola.
L'esperimento politico savonaroliano terminò con la condanna e l'esecuzione del frate ad opera dei nemici esterni (primo fra tutti, il bersaglio principale delle prediche moralizzatrici del Savonarola, il risorgente partito filomediceo).
Il Cardinale de’ Medici tornò in Italia nel 1500 e decise di stabilirsi a Roma, nel palazzo di famiglia, l'attuale e famoso Palazzo Madama, sottraendosi per quanto possibile all'attenzione e disarmando le gelosie di Alessandro VI, con la sua completa devozione per gli studi letterari e quindi raccogliendo intorno a sé molti letterati e poeti.
Nel 1503 moriva il fratello maggiore Piero de' Medici e quindi egli diveniva capo della prestigiosa famiglia.
Nello stesso periodo moriva anche Papa Alessandro VI, e le cause della sua morte, avvenuta il 18 agosto 1503, non risultano del tutto chiare. Le cause ufficiali affermano che il papa morì per un attacco improvviso di apoplessia. C'è, però, un'altra versione che vuole che la morte del Papa sia avvenuta per avvelenamento, “ma per errore”.
Contemporaneamente, morto Papa Alessandro VI, fu eletto Papa Pio III.
Il suo pontificato fu brevissimo in quanti duro solo 26 giorni: morì il 18 ottobre 1503 presso il palazzo apostolico di Roma, per un’ulcera alla gamba, o, come sostenuto da alcuni, a causa di un veleno.
Il 1º novembre 1503 fu eletto Papa Giulio II, uomo dalle grandi doti politiche.
Noto come "il Papa guerriero" o "il Papa terribile", è uno dei più celebri pontefici del Rinascimento.
La fama di Papa Giulio II è indissolubilmente legata a progetti artistici che portò avanti, facendosi mecenate di alcuni dei più grandi artisti di sempre e offrendo loro la possibilità di creare opere che sono entrate nei capolavori dell'arte occidentale.
Ma per i Medici non era ancora possibile recuperare il potere, cosicché esso fu affidato a un sostenitore non troppo fanatico del partito mediceo, Piero Soderini, che avrebbe guidato col titolo di gonfaloniere, incarico che nel 1502 gli fu conferito a vita, un governo moderato che cercasse la conciliazione fra i partiti.
Questo governo, che rifletteva le scarse qualità politiche del proprio capo, inaugurò però una nuova stagione di splendore artistico per la città, con le commissioni a Michelangelo, Leonardo e tanti altri artisti, e con importanti incarichi politici affidati a personalità come Niccolò Machiavelli.
Il governo di Soderini sopravvisse fino al 1512, quando il cardinale Giovanni de’ Medici poté rientrare a Firenze grazie all'appoggio di Papa Giulio II e della Lega Santa alla quale aderirono l’Inghilterra, il Sacro Romano Impero, il Regno di Spagna e la Repubblica di Venezia. Un esercito spagnolo, al comando di Raimondo de Cardona, invase il Muggello e mise a sacco Prato e Campi Bisenzio in modo orrendo.
Davanti a queste devastazioni, i fiorentini si arresero ed il 14 settembre 1512 accettarono il ritorno della casata medicea.
Ma in città lo spirito repubblicano era ancora molto forte e fu scoperto un complotto contro i Medici proprio nel momento in cui giungeva la notizia da Roma della morte di Papa Giulio II, avvenuta il 23 febbraio 1513.
Il Cardinale Giovanni de' Medici, si recò subito a Roma per il conclave che incominciò il 9 marzo 1513.
Grazie all'abile segretario Bernardo Dovizi da Bibbiena, che riuscì a convincere molti cardinali elettori sull'opportunità di un papa mediceo dallo spirito conciliante e che probabilmente non avendo buona salute sarebbe durato poco, il giorno stesso venne eletto papa.
Non essendo che diacono, fu subito ordinato sacerdote e vescovo il 13 marzo 1513 e poi incoronato in modo solenne il 19 marzo 1513 come Papa Leone X. Il 3 gennaio 1521 scomunicò Martin Lutero con la bolla pontificia Decet Romanum Pontificem.
Tale incoronazione, di fatto, sancì la fine del periodo Repubblicano.
https://www.treccani.it/enciclopedia/leonardo-da-vinci_%28Dizionario-Biografico%29/
Leonardo Da Vinci dalla missione segreta in Friuli (1498) alla sua morte (1519)
Il 1498 è un anno pieno di colpi di scena. Il ventottenne re di Francia, Carlo VIII, il 07 aprile muore a causa d’una emorragia cerebrale. Qualche giorno dopo, il 26 aprile, Leonardo Da Vinci riceve la sua bella vigna da Ludovico il Moro, a Milano, vicino al convento di Santa Maria delle Grazie nel centro di quella ricca città.
Il 28 aprile la corona francese passa a Luigi XII: una pessima notizia per l’Italia e per i suoi fragili equilibri, perché quel re accampa pretese dinastiche su Genova e sul ducato di Milano, per via d’una sua nonna appartenente alla casata dei Visconti, una dinastia alla quale gli Sforza, secondo il nuovo monarca, hanno ingiustamente tolto Milano.
Ludovico il Moro sa di aver i giorni contati e mette in moto i propri ambasciatori, cercando di parare il colpo.
Mobilita Massimiliano d’Austria, lo sposo di sua nipote e arruola migliaia di mercenari svizzeri. Ordina che il bronzo messo da parte per fondere il gran cavallo di Leonardo da Vinci per commemorare suo padre, Francesco Sforza, venga subito spedito a Mantova per esser fuso in cannoni.
I veneziani si schierano con i francesi e allora il Moro si schiera con i turchi, nemici dei veneziani.
I turchi entrano in Friuli, valicando l’Isonzo e il Tagliamento e vi saccheggiano dei villaggi, portandosi via centinaia di prigionieri, donne e bambini, che rivenderanno come schiavi.
Leonardo dapprima resta a Milano e v’accoglie Luigi XII che vi entra trionfalmente il 6 ottobre 1499.
Il re rimane incantato dalla Ultima Cena dipinta da Leonardo al punto di pensare di demolire il muro e portarselo in Francia.
Milano però è diventata pericolosa: i balestrieri guasconi usano la forma in creta a grandezza naturale del gran cavallo di Leonardo per far pratica di tiro e la distruggono.
Leonardo pensa bene di andarsene e a dicembre parte per Mantova con i propri allievi e con l’amico matematico Fra Luca Bartolomeo de Pacioli. Si fermano da Isabella d’Este per qualche giorno e poi riprendono il cammino verso Venezia.
Siamo certi che Leonardo andò a Venezia dove restò per uno o due mesi, solo per via d’una conferma secondaria: una lettera del liutaio Lorenzo Gusnasco a Isabella d’Este e una sua noterella nel Codice Arundel, conservato a Londra:
“Ricordo come a dì 8 di aprile 1503 io Leonardo da Vinci prestai a Vante miniatore ducati 4 d’oro in oro […]
Ricordo come nel sopradetto giorno io rendei a Salaì ducati 3 d’oro, i quali disse volersene fare un paio di calze rosate co’ sua fornimenti, e li restai a dare ducati 9, posto che lui ne de’ dare a me ducati 20, cioé 17 prestaili a Milano e 3 a Vinegia[…]”.
Il Salai, Gian Giacomo Caprotti, fu il discepolo prediletto di Leonardo, un monello al quale il grande uomo non sapeva mai dir di no.
Questo è tutto?
Nel mese di febbraio del 1500 Ludovico il Moro riprende Milano alla testa dei suoi mercenari ma riesce a tenerla solo per un mese e poi, tradito dagli svizzeri a Novara, vien portato in una gabbia di ferro sino a Loches, in Francia, dove morirà.
La scarsità delle notizie par quasi indicare che Leonardo sia stato impegnato in una missione segreta… e questo è possibile, poiché a quel tempo non era certo che Ludovico il Moro e la sua coalizione sarebbero usciti perdenti da quella guerra, e se avessero vinto a Leonardo avrebbero tolto la sua amatissima vigna, o peggio, accusandolo d’intelligenza con il nemico.
Ma di che missione si trattava?
Possiamo farcene un’idea dal foglio 638° V del Codice Atlantico conservato presso alla biblioteca Ambrosiana di Milano e noto come Memorandum Ligny. E’ una pagina che mostra di essere stata più volte ripiegata e forse nascosta in una tasca, con un frammento mancante. Vi troviamo sopra due abbozzi di lettere scritte di pugno di Leonardo e che paiono dirette al Senato Veneto. Riguardano degli studi per difendere il Friuli dagli assalti dei turchi. Infatti vi si parla di difese da costruire sull’Isonzo per contrastarli, ed è notevole il fatto che Leonardo avesse capito che la linea per contenerli era proprio quel fiume, infatti vi si dice, fra l’altro: “Illustrissimi signori, avendo io esaminato la qualità del fiume l’Isonzio, e da’ paesani inteso come per qualunque parte di terraferma…”.
Leonardo deve aver condotto un’ispezione sulle rive del Isonzo e parlato a chi ci abitava.
Esiste un’altra notazione di Leonardo che ci conferma nell’idea che effettivamente egli vi condusse un’ispezione e che propose delle modifiche difensive. Parliamo sempre del Codice Atlantico al foglio 822 v, che risale al 1508, dove ricorda certi suoi studi fatti in passato: parla di un sistema per il trasporto delle artiglierie studiato per Gradisca del Friuli: “ Bombarde da Lion a Vinegia col modo ch’io detti a Gradisca in Frigoli e in Ovinhie (Udine?)”. Più avanti troviamo uno schizzo sul quale annota: “Il ponte di Goritia” e “Vilpago (Wippach).”
Del sopralluogo di Leonardo non esiste traccia negli archivi veneziani, ma sappiamo che il 13 marzo 1500 il Senato veneto discusse d’inviare Giampaolo Manfron con una delegazione di tecnici in Friuli e che durante il dibattito Pietro Moro (patron de l’Arsenale) s’alzò e disse che conosceva ingegneri militari che potevano preparare dei piani adeguati.
Il timore d’una invasione turca scemò dopo il 13 aprile 1500 quando i francesi sconfissero e catturarono Ludovico il Moro, ponendo termine alla guerra.
A quei tempi a Firenze la Repubblica intendeva celebrare gli eventi che avevano sancito il trionfo di Firenze sui suoi nemici, e intendeva farlo nell’ambiente più grande e più prestigioso della sede del potere cittadino, il Salone dei Cinquecento, all’epoca il “Salone del Maggior Consiglio”, ovvero il locale dove si tenevano le sedute del Maggior Consiglio della Repubblica, istituzione composta da cinquecento cittadini fiorentini (una sorta di Parlamento) e fondata negli anni in cui il potere era de facto detenuto da Girolamo Savonarola, che commissionò anche la realizzazione dell’ambiente, costruito tra il 1495 e il 1496, in soli sette mesi, su progetto di Simone del Pollaiolo detto il Cronaca e Francesco di Domenico.
Tratto da “Le vite (1568)” di Giorgio Vasari.
“Ne’ medesimi tempi, dovendosi fare, per consiglio di fra’ Ieronimo Savonarola, allora famosissimo predicatore, la gran sala del Consiglio nel palazzo della Signoria di Firenze, ne fu preso parere con Lionardo da Vinci, Michelagnolo Buonaroti, ancora che giovanetto, Giuliano da San Gallo, Baccio d’Agnolo e Simone del Pollaiuolo detto il Cronaca, il quale era molto amico e divoto del Savonarola. Costoro dunque, dopo molte dispute, dettono ordine d’accordo che la sala si facesse in quel modo ch’ell’è poi stata sempre insino che ella si è ai giorni nostri quasi rinovata, come si è detto e si dirà in altro luogo. E di tutta l’opera fu dato il carico al Cronaca, come ingegnoso et anco come amico di fra’ Girolamo detto, et egli la condusse con molta prestezza e diligenza e particolarmente mostrò bellissimo ingegno nel fare il tetto, per essere l’edifizio grandissimo per tutti i versi. […] E perché le due testate di questa sala, una per ciascun lato, erano fuor di squadra otto braccia, non presono, come arebbono potuto fare, risoluzione d’ingrossare le mura per ridurla in isquadra, ma seguitarono le mura eguali insino al tetto, con fare tre finestre grandi per ciascuna delle facciate delle teste. Ma, finito il tutto, riuscendo loro questa sala per la sua straordinaria grandezza cieca di lumi e, rispetto al corpo così lungo e largo, nana e con poco sfogo d’altezza et insomma quasi tutta sproporzionata, cercarono, ma non giovò molto, l’aiutarla col fare dalla parte di levante due finestre nel mezzo della sala e quattro dalla banda di ponente. Appresso, per darle ultimo fine, feciono in sul piano del mattonato, con molta prestezza, essendo a ciò sollecitati dai cittadini, una ringhiera di legname intorno intorno alle mura di quella, larga et alta tre braccia, con i suoi sederi a uso di teatro e con balaustri dinanzi, sopra la quale ringhiera avevano a stare tutti i magistrati della città. E nel mezzo della facciata, che è volta a levante, era una residenza più eminente, dove col Confaloniere di iustizia stavano i Signori; e da ciascun lato di questo più eminente luogo erano due porte, una delle quali entrava nel segreto e l’altra nello specchio, e nella facciata che è dirimpetto a questa, dal lato di ponente, era un altare dove si diceva messa con una tavola di mano di fra’ Bartolomeo, come si è detto, et a canto all’altare la bigoncia da orare. […]
In questa sala, che fu allora molto lodata, come fatta con prestezza e con molte belle considerazioni, ha poi meglio scoperto il tempo gli errori dell’esser bassa, scura, malinconica e fuor di squadra.”
Di conseguenza, la Repubblica di Firenze rappresentata dal suo gonfaloniere (ovvero la massima carica dello Stato), Pier Soderini, chiamò l’affermato Leonardo Da Vinci e il suo rivale, l’emergente Michelangelo Buonarroti, artista che incontrò e maturò stretti contatti con molte Personalità, per le quali ebbe modo anche di lavorare: da Lorenzo il Magnifico a Papa Giulio II, ma soprattutto per i papi Medici (Leone X e Clemente VII)
Tratto da “Le vite (1568)” di Giorgio Vasari.
“Per la eccellenzia dunque delle opere di questo divinissimo artefice, era tanto cresciuta la fama sua, che tutte le persone che si dilettavano de l’arte, anzi la stessa città intera disiderava ch’egli le lasciasse qualche memoria; e ragionavasi per tutto di fargli fare qualche opera notabile e grande, donde il pubblico fusse ornato et onorato di tanto ingegno, grazia e giudizio, quanto nelle cose di Lionardo si conosceva. E tra il gonfalonieri et i cittadini grandi si praticò che essendosi fatta di nuovo la gran sala del consiglio, l’architettura della quale fu ordinata col giudizio e consiglio suo, di Giuliano S. Gallo e di Simone Pollaiuoli detto Cronaca e di Michelagnolo Buonarroti e Baccio d’Agnolo (come a’ suoi luoghi più distintamente si raggionerà). La quale finita, con grande prestezza fu per decreto publico ordinato, che a Lionardo fussi dato a dipignere qualche opera bella; e così da Piero Soderini, gonfaloniere allora di giustizia, gli fu allogata la detta sala”.
Nell’ottobre del 1503 fu affidato il contratto a Leonardo per la realizzazione di un grande affresco che avrebbe dovuto decorare una delle pareti del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, sul tema della Battaglia di Anghiari.
L’8 gennaio 1504, allo stesso, gli venne assegnata la sala del Papa in S. Maria Novella, per allestirvi il suo studio.
In quel periodo, il 9 luglio 1504, moriva suo padre, all'età d'ottanta anni.
Mentre tra l’agosto e il settembre del 1504 sulla parete affianco, fu affido a Michelangelo il dipinto di altra scena di guerra, la Battaglia di Cascina.
Anche a Michelangelo la Repubblica fornì un alloggio nell’ospedale de’Tintori a Santo Onofrio.
Entrambi si trattavano di incarichi di grande prestigio e di elevato valore simbolico ma soprattutto di un operazione estremamente impegnativa, date le dimensioni dell’ambiente e la novità del soggetto, tanto che alla fine né Leonardo né Michelangelo riuscirono a portare a termine l’impresa: il primo perché falli “forse volutamente” nel tentativo di sperimentare, come si vedrà di seguito, una particolare tecnica realizzativa, il secondo perché abbandonò il progetto prima di portarlo a termine (o probabilmente, come ironicamente il Vasari fa intendere, prima d'iniziarlo), lasciando Firenze in fetta e furia per trasferirsi a Roma atteso dal Papa Giulio II, dove gli commissionò il proprio monumento funebre. Nel 1508, ancora Papa Giulio II incaricò Michelangelo di eseguire gli affreschi della volta della Cappella Sistina: l’artista non si considerava un pittore ed era alla sua prima prova con la tecnica dell’affresco, dunque accettò con riluttanza. Tornato a Firenze, nel 1516, per volere del nuovo Papa Leone X eseguì alcuni progetti per la realizzazione della facciata della basilica fiorentina di San Lorenzo.
Nel 1520 il cardinale Giulio de’ Medici gli affidò la realizzazione della Sagrestia Nuova di San Lorenzo, uno dei suoi maggiori capolavori, terminato circa quindici anni più tardi.
Il giovane scultore Michelangelo probabilmente sentiva la rivalità con Leonardo, ed è lo stesso Vasari a metterla su questo piano, narrando che “fu cagione che egli facesse a concorrenza di Lionardo l’altra facciata, nella quale egli prese per subietto la guerra di Pisa”.
I due ebbero modo di conoscersi poco prima dell’incarico del Salone dei Cinquecento, e si dice che anche a corroborare al loro scontro è un aneddoto raccontato dall’Anonimo Magliabechiano (e non rintracciabile in nessun’altra fonte) in un codice conservato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, dove troviamo questo passo: “Et passando ditto Lionardo, insieme con G. da Gavina, da Santa Trinita dalla pancaccia delli Spini, dove era una ragunata d’huomini da bene, et dove si disputava un passo di Dante, chiamaro detto Lionardo, dicendogli che dichiarassi loro quel passo. Et a caso, a punto passò di quivi Michele Agnolo, et chiamato da un di loro, rispose Lionardo: ‘Michele Agnolo ve lo dichiarerà egli’. Di che parendo a Michele Agnolo l’havessi detto per sbeffarlo, con ira gli rispose: ‘Dichiaralo pur tu, che facesti un disegnio d’uno cavallo per gittarlo di bronzo et non lo potesti gittare, et per vergogna lo lasciasti stare’. Et detto questo, voltò loro le rene e andò via. Dove rimase Lionardo, che per le dette parole diventò rosso”. In breve, a Leonardo era stato chiesto da alcuni amici di declamare alcuni versi di Dante, e il vinciano, vedendo passare Michelangelo, disse loro di chiedere a lui: alche lo scultore, pensando che Leonardo lo stesse prendendo in giro, gli avrebbe risposto in malo modo rinfacciandogli il fiasco del monumento equestre a Francesco Sforza.
Anche Vasari fa sapere che tra i due c’era “sdegno grandissimo”, al punto di motivare, anche per questo dissapore, la partenza di Leonardo per la Francia nel 1516. Una delle ragione del dissidio potrebbe essere che, il 25 gennaio 1504, Leonardo da Vinci, chiamato a far parte, assieme a tutti i grandi artisti fiorentini del tempo, della commissione che avrebbe dovuto decidere la collocazione del David del giovane rivale, avanzò per la scultura, proponendo di sistemarla contro la parete di fondo della Loggia dei Lanzi. Una posizione che avrebbe potuto essere ritenuta infelice (la statua avrebbe avuto poca visibilità), ma che era coerente con le scelte artistiche di Leonardo.
Sicuramente il maggior sdegno di Leonardo, nei confronti di Michelangelo, fu nel momento in cui il giovane emergente accetto di affiancarlo, con lo scopo di controllarlo nella particolare tecnica realizzativa.
Quale fu il destino della Battaglia di Cascina? Si sosteneva che nella primavera del 1505 il cartone fosse già pronto, ma il 17 aprile del 1506 Michelangelo partì per Roma per lavorare per Papa Giulio II, e non sarebbe tornato più a Firenze per i successivi dieci anni. L’affresco, pertanto, non venne mai realizzato. È però probabile che anche il lavoro preparatorio non fosse stato terminato: i biografi, tra cui Giorgio Vasari e Benedetto Varchi, fanno riferimento a composizioni che lasciano presagire uno scontro tra fiorentini e pisani, e gli stessi disegni di Michelangelo attestano figure di cavalieri in combattimento. È dunque probabile che Michelangelo abbia dipinto solo un episodio della battaglia, senza completare eventuali altre scene.
Sappiamo che, dopo la partenza di Michelangelo per Roma, il leggendario cartone era tenuto sotto chiave: ci sono infatti un paio di lettere che, dopo la partenza di Leonardo per Milano, Michelangelo invia a suo fratello nel 1508, raccomandandosi di far vedere l’opera al pittore, scultore e architetto spagnolo Alonso Berruguete, uno degli scultori più importanti del Rinascimento spagnolo. (Ma forse si trattava del cartone di Leonardo).
È invece del 1510 il memoriale di Francesco di Giorgio Albertini che attesta la presenza in Palazzo Vecchio de “li disiegni di Michelangelo”, assieme a “li cavalli” di Leonardo da Vinci". L’opera viene però rimossa da Palazzo Vecchio nel 1512, anno della restaurazione medicea, in quanto nella sede del potere non era possibile far restare un simbolo della Firenze repubblicana.
Vasari racconta dunque che il cartone fu trasferito in Palazzo Medici Riccardi. Secondo lo storiografo aretino, a far rimuovere il cartone da Palazzo Vecchio sarebbe stato dunque Giuliano de’ Medici, il cui monumento funebre sarebbe stato peraltro realizzato proprio da Michelangelo.
Tratto da “Le vite (1568)” di Giorgio Vasari.
[…] Laonde Michelagnolo fatto un modello di cera finse in quello per la insegna del palazzo un Davit giovane, con una frombola in mano, acciò che, sì come egli aveva difeso il suo popolo e governatolo con giustizia, così chi governava quella città dovesse animosamente difenderla e giustamente governarla: e lo cominciò nell’Opera di Santa Maria del Fiore, nella quale fece una turata fra muro e tavole et il marmo circondato, e quello di continuo lavorando senza che nessuno il vedesse, a ultima perfezzione lo condusse. Era questa statua quando finita fu, ridotta in tal termine che varie furono le dispute che si fecero per condurla in piazza de’ Signori.
Nacque in questo mentre, che vistolo su Pier Soderini, il quale piaciutogli assai, et in quel mentre che lo ritoccava in certi luoghi, disse a Michelagnolo che gli pareva che il naso di quella figura fussi grosso. Michelagnolo accortosi che era sotto al gigante il gonfalonieri e che la vista non lo lasciava scorgere il vero, per satisfarlo salì in sul ponte, che era accanto alle spalle, e preso Michelagnolo con prestezza uno scarpello nella man manca con un poco di polvere di marmo che era sopra le tavole del ponte, e cominciato a gettare leggieri con li scarpegli, lasciava cadere a poco a poco la polvere, né toccò il naso da quel che era. Poi guardato a basso al gonfalonieri, che stava a vedere, disse: "Guardatelo ora". "A me mi piace più", disse il gonfalonieri, "gli avete dato la vita." Così scese Michelagnolo, e lo avere contento quel signore che se ne rise da sé Michelagnolo avendo compassione a coloro che per parere d’intendersi non sanno quel che si dicano. […]
N’ebbe Michelagnolo da Pier Soderini per sua mercede scudi quattrocento, e fu rizzata l’anno 1504, e per la fama che per questo acquistò nella scultura fece al sopra detto gonfalonieri un Davit di bronzo bellissimo, il quale egli mandò in Francia […]
“Avvenne che dipignendo Lionardo da Vinci pittore rarissimo nella sala grande del Consiglio, come nella vita sua è narrato, Piero Soderini, allora gonfaloniere, per la gran virtù che egli vidde in Michelagnolo, gli fece allogagione d’una parte di quella sala: onde fu cagione che egli facesse a concorrenza di Lionardo l’altra facciata, nella quale egli prese per subietto la guerra di Pisa. Per il che Michelagnolo ebbe una stanza nello spedale de’ Tintori a Santo Onofrio, e quivi cominciò un grandissimo cartone, né però volse mai che altri lo vedesse. […] Per il che gli artefici stupiti et ammirati restorono, vedendo l’estremità dell’arte in tal carta per Michelagnolo mostrata loro. Onde, veduto sì divine figure, dicono, alcuni che le viddero, di man sua e d’altri ancora non essere mai più veduto cosa che della divinità dell’arte nessuno altro ingegno possa arrivarla mai. E certamente è da credere, perciò che da poi che fu finito e portato alla sala del papa con gran romore dell’arte e grandissima gloria di Michelagnolo, tutti coloro che su quel cartone studiarono e tal cosa disegnarono, come poi si seguitò molti anni in Fiorenza per forestieri e per terrazzani, diventarono persone in tale arte eccellenti, come vedemo; per il che essendo questo cartone diventato uno studio d’artefici, fu condotto in casa Medici nella sala grande di sopra, e tal cosa fu cagione che egli troppo a securtà nelle mani degli artefici fu messo: per che nella infermità del duca Giuliano, mentre nessuno badava a tal cosa, fu come s’è detto altrove stracciato, et in molti pezzi diviso, tal che in molti luoghi se n’è sparto, come ne fanno fede alcuni pezzi che si veggono ancora in Mantova in casa di Messer Uberto Strozzi gentiluomo mantovano, i quali con riverenza grande son tenuti. E certo che a vedere e’ son più tosto cosa divina che umana. Era talmente la fama di Michelagnolo per la Pietà fatta, per il gigante di Fiorenza e per il cartone nota, che essendo venuto l’anno 1503 la morte di papa Alessandro VI e creato Giulio Secondo, che allora Michelagnolo era di anni ventinove incirca, fu chiamato con gran suo favore da Giulio II per fargli fare la sepoltura sua, e per suo viatico gli fu pagato scudi cento da’ suoi oratori”. Dove condottosi a Roma, passò molti mesi innanzi che gli facessi mettere mano a cosa alcuna”.
Leonardo dopo che l’8 gennaio 1504 gli venne assegnata la sala del Papa in S. Maria Novella adibita all’uso pontificio, dove allestì il suo studio per la realizzazione del cartone preparatorio della Battaglia di Anghiari, realizzo una tavola "sperimentale", dipinta in formato ridotto, della parte centrale della battaglia di Anghiari.
Il 6 giugno 1505, nel "punto di posare il pennello" il cartone preparato da Leonardo "si stracciò" a causa di un temporale (Madrid, Biblioteca nacional, ms. 8936, c. 2r), anche se questa data non va assunta come data d'inizio della pittura (Pedretti, 1968, pp. 53-66), ma come ricordo di un evento che fece interrompere il lavoro pittorico già intrapreso (Brizio, 1974, pp. 46-50).
È curioso quanto importante far notare, così come riportato dal Vasari, il comportamento assunto tra il Leonardo e Piero Solderini, nonostante il fallimento della tecnica impiegata
“Dicesi che andando al banco per la provisione, ch’ogni mese da Piero Soderini soleva pigliare, il cassiere gli volse dare certi cartocci di quattrini; et egli non li volse pigliare, rispondendogli: "Io non sono dipintore da quattrini". Essendo incolpato d’aver giuntato da Piero Soderini fu mormorato contra di lui; per che Lionardo fece tanto con gli amici suoi, che ragunò i danari e portolli per ristituire, ma Piero non li volle accettare”.
Nel contempo Leonardo aveva assunto impegni con il re di Francia e con alti funzionari francesi a Milano.
Il 27 aprile 1506, si sa che era ancora a Firenze, quando a Milano continuavano gli strascichi per la Nostra Donna commissionatagli fin dal 1483 dalla Confraternita della Concezione.
Ma il 18 agosto del 1506, una lettera di Charles d'Amboise alla Repubblica fiorentina, in cui si chiedeva di avere Leonardo a Milano per due mesi "per fornir certa opera che li habiamo facto principiare", fa sorgere il sospetto che Leonardo avesse già intrapreso qualche lavoro proprio per il governatore del Ducato. Il sospetto è confermato da due altre lettere di Geoffrey Carles del 19 agosto e del 16 ottobre1506 che sollecitano la sua venuta, e da una lettera dello stesso Amboise del 16 dicembre 1506 in cui si apprende che Leonardo aveva già dato prova di certi lavori di architettura, "et altre cose pertinenti la condictione nostra".
Fu così che per l'incomprensione di alcuni artisti e mecenati fiorentini verso il suo travaglio di ricercatore, ma sopratutto per aver fallito nel tentativo di sperimentare una particolare tecnica realizzativa nel dipingere la battaglia di Anghiari, Leonardo nel 1507 si dovette rifugiare nuovamente a Milano, protetto da Luigi XII.
Tratto da “Le vite (1568)” di Giorgio Vasari.
“Per il che volendola condurre Lionardo, cominciò un cartone alla sala del papa, luogo in S. Maria Novella, dentrovi la storia di Niccolò Piccinino, capitano del duca Filippo di Milano, nel quale disegnò un groppo di cavalli che combattevano una bandiera, cosa che eccellentissima e di gran magisterio fu tenuta per le mirabilissime considerazioni che egli ebbe nel far quella fuga. Perciò che in essa non si conosce meno la rabbia, lo sdegno e la vendetta negli uomini che ne’ cavalli; tra quali due intrecciatisi con le gambe dinanzi non fanno men guerra coi denti, che si faccia chi gli cavalca nel combattere detta bandiera, dove apiccato le mani un soldato, con la forza delle spalle, mentre mette il cavallo in fuga, rivolto egli con la persona, aggrappato l’aste dello stendardo, per sgusciarlo per forza delle mani di quattro, che due lo difendono con una mano per uno, e l’altra in aria con le spade tentano di tagliar l’aste; mentre che un soldato vecchio con un berretton rosso, gridando, tiene una mano nell’asta e con l’altra inalberato una storta, mena con stizza un colpo, per tagliar tutte a due le mani a coloro, che con forza digrignando i denti, tentano con fierissima attitudine di difendere la loro bandiera; oltra che in terra fra le gambe de’ cavagli v’è due figure in iscorto, che combattendo insieme, mentre uno in terra ha sopra uno soldato, che alzato il braccio quanto può, con quella forza maggiore gli mette alla gola il pugnale, per finirgli la vita: e quello altro con le gambe e con le braccia sbattuto, fa ciò che egli può per non volere la morte. Né si può esprimere il disegno che Lionardo fece negli abiti de’ soldati, variatamente variati da lui; simile i cimieri e gli altri ornamenti, senza la maestria incredibile che egli mostrò nelle forme e lineamenti de’ cavagli: i quali Lionardo meglio ch’altro maestro fece, di bravura, di muscoli e di garbata bellezza. Dicesi che per disegnare il detto cartone fece uno edifizio artificiosissimo che, stringendolo, s’alzava, et allargandolo, s’abbassava. Et imaginandosi di volere a olio colorire in muro, fece una composizione d’una mistura sì grossa, per lo incollato del muro, che continuando a dipignere in detta sala, cominciò a colare, di maniera che in breve tempo abbandonò quella, vedendola guastare. Aveva Lionardo grandissimo animo et in ogni sua azzione era generosissimo. Dicesi che andando al banco per la provisione, ch’ogni mese da Piero Soderini soleva pigliare, il cassiere gli volse dare certi cartocci di quattrini; et egli non li volse pigliare, rispondendogli: "Io non sono dipintore da quattrini". Essendo incolpato d’aver giuntato da Piero Soderini fu mormorato contra di lui; per che Lionardo fece tanto con gli amici suoi, che ragunò i danari e portolli per ristituire, ma Piero non li volle accettare”.
Di quello che rimase dell’opera realizzata da Leonardo, una parte del cartone finì nello spedale di S. Maria Nuova (Francesco di Giorgio Albertini, Memoriale di molte statue et picture che sono nella inclyta cipta di Florentia, 1510, c. 5r, in Villata, 1999, p. 239) ed un'altra rimase in palazzo Vecchio: questa porzione dovrebbe coincidere con quella ricordata, in un manoscritto di Marcello Oretti, in palazzo Medici Riccardi come ancora esistente verso il 1774 (Pedretti, 1968, pp. 76 s.).
L'opera era ancora visibile nel 1510, quando l'Albertini, sempre nel suo Memoriale, ricorda "Nella sala granda nuova del consiglio maiore[…] li cavalli di Leonardo Vinci et li disegni di Michelagnolo".
Ma esiste un documento del 23 febbraio del 1513, corrispondente alla data della morte di Papa Giulio II ed alla partenza per Roma del Cardinale Giovanni de' Medici, che attesta un pagamento a un falegname, Francesco di Cappello, per “armare le fighure dipinte nella Sala grande della guardia, di mano di Lionardo da Vinci, per difenderle che le non sieno guaste" (Pedretti, 1968, p. 68).”.
E poi, negli anni Venti Paolo Giovio riferiva che nella Sala del Consiglio si trovava la “battaglia e vittoria sui milanesi, magnifica ma sventuratamente incompiuta”.
La pittura è ricordata ancora nel 1549, in una lettera di Agnolo Doni da Venezia ad Alberto Lollio, con un elenco di cose notabili da vedere a Firenze: "salito le scale della sala grande, diligentemente date una vista a un gruppo di cavalli, e d'uomini (un pezzo di battaglia di Lionardo da Vinci) che vi parrà una cosa miracolosa" (Bottari; Pedretti, 1968, p. 71).
L'aspetto della vasta composizione murale allestita e in parte dipinta da Leonardo è noto grazie a un'incisione di L. Zacchia del 1558 che tramanda però solo il gruppo centrale della Lotta per lo stendardo, forse desunto direttamente dalla pittura murale (ancora esistente quando Vasari si accinse a trasformare la sala e a eseguire i suoi affreschi, nel 1563), o più probabilmente da una tavola "sperimentale" dipinta, in formato ridotto, da Leonardo che sembra essere stata vista ancora, nella sala del Papa in S. Maria Novella, verso il 1774 (Pedretti, 1968, pp. 58, 77).
Nel dicembre del 1512 il ritorno di Massimiliano Sforza a Milano costrinse Leonardo a rifugiarsi a Vaprio presso il fedelissimo discepolo F. Melzi, sinché, nel 1513 fu chiamato a Roma da Giuliano de' Medici.
Ma a Roma Leonardo si vide escluso dal Papa Leone X, nella realizzazione delle grandi opere del tempo: i progetti per S. Pietro e la decorazione del Vaticano; gli fu portato via il Trattato De vocie che aveva composto; ostacolato nelle sue ricerche di anatomia, continuò a occuparsi di studi matematici e scientifici. Nei suoi appunti si legge: "li Medici mi creorno e destrusseno".
Ma Leonardo, non avendo interrotto i rapporti con la Francia, come testimonia un suo appunto, nel 1517 si rifugiava presso Francesco I, che gli dava residenza nel castello di Cloux presso Amboise.
Leonardo morì il 2 maggio 1519, come informa Francesco Melzi in una lettera ai fratelli di Leonardi del 1° giugno 1519.
Tratto da “Le vite (1568)” di Giorgio Vasari.
“Andò a Roma col duca Giuliano de’ Medici nella creazione di papa Leone, che attendeva molto a cose filosofiche e massimamente alla alchimia, dove formando una pasta di una cera, mentre che caminava faceva animali sottilissimi pieni di vento, ne i quali soffiando, gli faceva volare per l’aria; ma cessando il vento, cadevano in terra. Fermò in un ramarro, trovato dal vignaruolo di Belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scaglie di altri ramarri scorticate, ali a dosso con mistura d’argenti vivi, che nel moversi quando caminava tremavano; e fattogli gl’occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola, tutti gli amici ai quali lo mostrava, per paura faceva fuggire. Usava spesso far minutamente digrassare e purgare le budella d’un castrato, e talmente venir sottili, che si sarebbono tenuto in palma di mano. Et aveva messo in un’altra stanza un paio di mantici da fabbro, ai quali metteva un capo delle dette budella, e gonfiandole ne riempieva la stanza, la quale era grandissima, dove bisognava che si recasse in un canto chi v’era, mostrando quelle trasparenti e piene di vento, dal tenere poco luogo in principio, esser venute a occuparne molto, aguagliandole alla virtù. Fece infinite di queste pazzie, et attese alli specchi; e tentò modi stranissimi nel cercare olii per dipignere e vernice per mantenere l’opere fatte. Fece in questo tempo per Messer Baldassarri Turini da Pescia che era datario di Leone, un quadretto di una Nostra Donna col Figliuolo in braccio con infinita diligenzia et arte. Ma, o sia per colpa di chi lo ingessò o pur per quelle sue tante e capricciose misture delle mestiche e de’ colori, è oggi molto guasto. Et in un altro quadretto ritrasse un fanciulletto, che è bello e grazioso a maraviglia, che oggi sono tutti e due in Pescia appresso a Messer Giulio Turini. Dicesi, che essendogli allogato una opera dal Papa, subito cominciò a stillare olii et erbe per far la vernice; perché fu detto da papa Leone: "Oimè costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi il principio dell’opera. Era sdegno grandissimo fra Michele Agnolo Buonaroti e lui; per il che partì di Fiorenza Michelagnolo per la concorrenza, con la scusa del duca Giuliano, essendo chiamato dal Papa per la facciata di S. Lorenzo. Lionardo intendendo ciò partì, et andò in Francia, dove il re avendo avuto opere sue, gli era molto affezzionato; e desiderava ch’e’ colorisse il cartone della S. Anna; ma egli, secondo il suo costume, lo tenne gran tempo in parole. Finalmente venuto vecchio, stette molti mesi ammalato; e vedendosi vicino alla morte, si volse diligentemente informare de le cose catoliche e della via buona e santa religione cristiana, e poi con molti pianti, confesso e contrito, se bene e’ non poteva reggersi in piedi, sostenendosi nelle braccia di suoi amici e servi, volse divotamente pigliare il santissimo Sacramento fuor del letto. Sopragiunseli il re che spesso et amorevolmente lo soleva visitare; per il che egli per riverenza rizzatosi a sedere sul letto, contando il mal suo e gli accidenti di quello mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio e gli uomini del mondo, non avendo operato nell’arte come si conveniva. Onde gli venne un parossismo messaggero della morte. Per la qual cosa rizzatosi il re e presoli la testa per aiutarlo e porgerli favore, acciò che il male lo allegerisse, lo spirito suo, che divinissimo era, conoscendo non potere avere maggiore onore, spirò in braccio a quel re nella età sua d’anni 75. Dolse la perdita di Lionardo fuor di modo a tutti quegli che l’avevano conosciuto, perché mai non fu persona, che tanto facesse onore alla pittura. Egli con lo splendor dell’aria sua, che bellissima era, rasserenava ogni animo mesto, e con le parole volgeva al sì et al no ogni indurata intenzione. Egli con le forze sue riteneva ogni violenta furia; e con la destra torceva un ferro d’una campanella di muraglia et un ferro di cavallo, come se fusse piombo. Con la liberalità sua raccoglieva e pasceva ogni amico povero e ricco, pur che egli avesse ingegno e virtù. Ornava et onorava con ogni azzione qualsivoglia disonorata e spogliata stanza; per il che ebbe veramente Fiorenza grandissimo dono nel nascere di Lionardo, e perdita più che infinita nella sua morte. Nell’arte della pittura aggiunse costui alla maniera del colorire ad olio una certa oscurità; donde hanno dato i moderni, gran forza e rilievo alle loro figure. E nella statuaria fece pruove nelle tre figure di bronzo che sono sopra la porta di S. Giovanni da la parte di tramontana fatte da Giovan Francesco Rustici, ma ordinate co ’l consiglio di Lionardo, le quali sono il più bel getto e di disegno e di perfezzione, che modernamente si sia ancor visto. Da Lionardo abbiamo la notomia de’ cavalli e quella degli uomini assai più perfetta. Laonde per tante parti sue sì divine, ancora che molto più operasse con le parole che co’ fatti, il nome e la fama sua non si spegneranno già mai. Per il che fu detto in lode sua da Messer Giovanbatista Strozzi così:
Vince costui pur solo tutti altri; e vince Fidia e vince Apelle; e tutto il lor vittorioso stuolo”.
LO STUDIO E LE RICERCHE
Leonardo Da Vinci, una delle persone più geniali della storia dell’umanità, vissuto in un’epoca in cui il potere e l’influenza del Cattolicesimo della Chiesa romana erano molto forti, tanto da raffigurarsi come una potenza militare e politica che conduceva alle guerre, veniva ritenuto dai più, il Vasari compreso, come ateo o agnostico.
Ma più precisamente Leonardo era un platonico, tanto da confessarsi in tal senso con una lettera personale indirizzata ad un carissimo amico, in cui evidenziava quanto si vergognasse aver tradito, per più di sedici anni, tale pensiero, solo per opportunità.
Questo perché Leonardo aveva in mente i posteri sin dall’inizio e lavorò alla sua leggenda con un concetto, di un mondo migliore, più razionale, capace di osservare la realtà e di spiegare i fenomeni della natura.
Sappiamo per certo che Leonardo possedeva una copia della traduzione del trattato De architettura di Marco Vitruvio Pollione, ovvero Marcus Vitruvius Pollio (80- 23 a.C.), un grande architetto, ingegnere militare e un interessante scrittore romano del I sec. a.C., ma soprattutto il primo e più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi) è dunque possibile ipotizzare che il genio di Vinci fosse entrato a contatto con tutti i suoi contenuti attraverso la mediazione di Francesco di Giorgio Martini (Siena, 1439 – 1501).
Certo è che, negli stessi anni, il trattato di Vitruvio diventa oggetto di particolare attenzione da parte di artisti e umanisti.
Nel 1450, Leon Battista Alberti, nello scrivere il suo De re aedificatoria, aveva ripreso anche l’impianto su dieci Libri del De architectura, e qualche anno più tardi (tra il 1461 e il 1464) anche il Filarete avrebbe tratto importanti suggestioni dallo scritto di Vitruvio per il suo Trattato di architettura.
Se la prima edizione a stampa del De architectura, curata da Giovanni Sulpicio Verulano, risale verosimilmente al 1486 o comunque a un anno non posteriore al 1490, più o meno allo stesso periodo è possibile datare la prima traduzione in volgare, a opera di un genio versatile quale era Francesco di Giorgio Martini, che dedicò all’opera molti anni di lavoro, con continue revisioni e aggiornamenti.
Per alcuni studiosi la traduzione, contenuta nel Codice Magliabechiano oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, viene terminata nel 1487, mentre per altri sarebbe di alcuni anni posteriore.
È interessante notare come, nel 1490, Leonardo e Francesco di Giorgio Martini si fossero incontrati a Milano e a Pavia: in entrambe le occasioni i due lavorano nelle cattedrali delle due città. Gli scambi reciproci tra questi grandi artisti, come Leonardo, anche Francesco di Giorgio Martini è pittore, scrittore, architetto, ingegnere, sono ancora oggetto di studio ma, conoscendo i due, possiamo sicuramente affermare che l’incontro dovesse essere particolarmente significativo.
I due artisti sono legati, tra le altre cose, dal comune tentativo di offrire una rappresentazione grafica del canone vitruviano.
Di conseguenza, va ipotizzato, che Leonardo, nel realizzare la Battaglia di Anghiari, per l'esecuzione degli intonaci e delle pitture si basò anche delle tecniche, documentate ed insegnate da Vitruvio nel De architettura Libro VII.
https://www.treccani.it/enciclopedia/encausto_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/
Differenza tra tecnica ad ENCAUSTO e tecnica per l’ENCAUSTICATURA di particolari pitture
ENCAUSTO
Enciclopedia dell’Arte Antica (1960).
(ἔγκαυστονν da ἐν καίω = metto a fuoco; encaustum). - Sistema di pittura con i colori mescolati alla cera e che quindi per essere usati devono venir liquefatti dal calore (v. enkaustès).
La letteratura sull'encausto nell'antichità è altrettanto copiosa quanto discorde, riconoscendo e negando volta a volta la tecnica ad encausto nella generalità di determinati ambienti per lo più geograficamente o topograficamente delimitati, come ad esempio Pompei o il Fayyūm (v.).
La tecnica dell'encausto è descritta nel (Natural historia libro XXXV, c.149) da Caio Plinio Secondo, conosciuto come Plinio il Vecchio (in latino: Gaius Plinius Secundus Como 23 - Stabia, 25 agosto 79) uno scrittore, naturalista, filosofo naturalista, comandante militare e governatore provinciale romano, (non certo un architetto o pittore, cosa che lo avrebbe portato ed essere tecnicamente più preciso ed esaustivo, evitando così di trarre in errore anche la “Critica” così come precedentemente riportato in (Leonardo Da Vinci).
Traduzione del C. 149
"Due furono i metodi dell’antichità di dipingere ad encausto, con la cera e sull’avorio con il bulino, questo avviene con un piccolo stilo, finché non cominciarono al essere dipinte le flotte. Questo escogitò un terzo modo di usare il pennello dopo aver sciolto le cere con fuoco, la quale pittura per le navi non è rovinata né dal sole, né dai sali, né dai venti”.
Non molto chiara è la differenza che poteva esistere fra i due primi metodi elencati da Plinio: se il pennello, infatti, per spalmare i colori appare solo in un secondo tempo, in qual modo si spalmava la cera nel primo metodo, se la spatola era specificata solo per la seconda maniera?
La chiave del piccolo enigma si trova forse nel riferimento all'uso di dipingere le navi. In esse infatti la pittura aveva uno scopo puramente decorativo e non narrativo, decorava non descriveva, e quindi doveva consistere in colori spalmati con grandi spatole a coprire fianchi e carene, a rallegrare di vivaci tinte gli aplustri, forse anche a delineare grandi occhi apotropaici sulle prue. In tal caso erano più che sufficienti, anzi particolarmente adatte allo scopo, grandi spatole che permettevano di spalmare bene i colori, premendoli e facendoli aderire al fasciame ligneo della nave.
Il secondo modo di dipingere, in ebore cestro, era invece riservato alla pittura più fine, ai quadretti di avorio (press'a poco delle miniature, data la superficie piana ottenibile con quella materia), e per questo era necessaria la spatoletta assai fine, che doveva essere piatta da un lato per spalmare il colore e doveva dall'altro avere una punta che permettesse le necessarie rifiniture disegnative: ecco quindi il bulino, una sottile asticella appuntita da un lato e appiattita dall'altro, detta anche cestrum che consentiva ogni rifinitura e raffinatezza. Per un tal genere di pittura non occorreva avere i colori completamente liquefatti, ma bastava che l'amalgama della cera e del colore avesse una certa plasticità che si poteva anche ottenere con un calore molto moderato. Con il terzo metodo, nel quale il colore si doveva spandere con il pennello, e che costituì un progresso tecnico notevolissimo, i colori dovevano essere liquefatti al momento dell'uso e dovevano rimaner tali fino a che non fossero stati definitivamente spalmati sul supporto del dipinto: ecco quindi la necessità dei bracieri e delle tavolozze metalliche con vaschette per i colori, suscettibili di esser poste sul fuoco, come appaiono nel sarcofago di Kerč e nella tomba di St.-Médard-des-Près.
Il particolare trattamento che gli antichi imponevano alla cera vergine, con le successive bolliture nell'acqua di mare addizionata di nitro, con cui trasformavano la cera vergine nella cosiddetta cera punica, ne aumentava il punto di fusione e la rendeva adatta alle esigenze della pittura.
Questa tecnica fu certo adoperata per dipingere su tela e su tavola: qualche riserva invece va fatta sulla possibilità di usarla nell'affresco. Sembra, anzi, che tale tecnica esiga un supporto già asciutto; perciò dove si incontrano saldature dell'intonaco indicanti le "giornate" di lavoro, sarà ben difficile supporre tale tecnica (per esempio Casa di Livia, Farnesina, ecc.).
La critica ha voluto vedere molto spesso tecniche ad encausto in dipinti murali, specie pompeiani.
Bisogna a questo proposito dire che le analisi non hanno affatto dimostrato la presenza di cere nell'impasto dei colori, quando invece sezioni di colore la hanno mostrata in superficie a mo' di vernice, e che la lucentezza delle superfici si deve pertanto o ai processi di arrotatura cui venivano sottoposti gli intonaci ancor freschi ovvero secondo il procedimento indicato per la pittura murale nel De architectura, Libro VII, cap. III e IV, di Marco Vitruvio Pollione, processo tecnico, che come si può verificare, è nettamente distinto dall'encausto vero e proprio.
“ Terminati i cornicioni, si rinzaffino più rozzamente che sia possibile le mura: mentre sta per asciuttarsi il rinzaffo, si cuopra d’arricciatura, regolando le lunghezze colla riga e col filo, le altezze col piombo, e gli angoli con la squadra, perché un intonaco così fatto ne farà parer bella la pittura: mentre sta per seccarsi questo arricciato, vi si stenda il secondo, e poi il terzo. Così quanto più alto sarà l’arricciato, tanto più duro e stabile sarà l’intonaco.
Quando oltre il rinzaffo si saranno fatte non meno di tre croste d’arricciato, allora si stenderanno i piani di polvere di marmo, e questo stucco si stemprerà in modo che nello impastarsi non attacchi alla pala, ma ne esca netto il ferro: steso lo stucco, mentre si secca, vi si stenda un altro piano più sottile: e quando sarà questo ben maneggiato, e lisciato, si metta anche il terzo, e più sottile.
Così fortificare le mura con tre incrostature d’arena, ed altrettante di marmo non potranno essere sottoposte ne a crepature, ne a difetti alcuno: anzi essendo stati colle mazzuole ben battuti, ed assodati i piani di sotto, e poi ben lisciati per la durezza e candidezza del marmo, cacceranno i colori messivi ne pulimenti una somma nettezza e vivezza.
(..) Gli antichi si ingegnavano a forza d’arte, e di fatica far piacere quello, che ora si ottiene a forza di colori, e della loro sceltezza, e quel pregio, che aveva il lavori per la diligenza dell’artefice, ora in vero non gli manca, ma per la spesa, che vi fa il padrone. Chi degli antichi in fatti si è servito del cinabro, se non pacamente, come di un medicamento, ed ora al contrario generalmente se ne tingono le mura intere. Anzi di più si adopera la crisocolla, l’ostro, e l’azzurro, i quali colori tutti ancorché non messi con arte, pure fanno una vista sorprendente: e sono tanti cari, che si eccettuano nei patti, ed è in obbligo, volendogli, di metterli il padrone, non l’appaltatore. Ho dati, per quanto ho potuto, bastanti avvertimenti, perché non si facciano errori negli intonaci. (..)
Altro punto molto discusso dalla critica è quello della eventuale presenza di olî e resine nella cera impiegata per macinare i colori. Tuttavia le ultime esperienze eseguite alla Versuchanstalt für Maltechnik di Monaco, riportate anche da Stout (in Technical Studies, i, 1932, p. 82) sembrano escludere nel modo più assoluto l'esistenza di elementi estranei alla cera, almeno nelle pitture a encausto provenienti dall'Egitto.
La commistione con olî è del resto ricordata dalle fonti solo per l'encausticatura.
Di pitture antichissime ad encausto non se ne conosce alcuna e per i periodi anteriori all'ellenismo siamo ridotti alle sole menzioni delle fonti.
ENCAUSTICATURA DI PARTICOLARI PITTURE.
Nello stesso Natural Historia al Libro XXXV, c. 122, Plinio, pur dicendo di non sapere chi fosse stato il primo a dipingere ad encausto, fa una preziosa differenza tra "dipingere a cera ed encausticare una pittura".
Questa encausticatura di un dipinto, procedimento diverso cioè dalla semplice pittura a cera, è dettagliatamente documentata da Vitruvio nel suo De architectura Libro VII Capo IX quando spiega come effettuare la pittura con il Miniun ovvero con il Cinabro che di seguito si riporta: (Fig. 4/5)
“De Minii temperatura.
- Della preparazione del Cinabro-
"Ritorniamo ora alla preparazione del Cinabro, Le zolle, quando sono asciutte, si pestano con magli di ferro, e si macinano indi con lavarle e ricuocerle più volte si fa si, che n’esca il colore: con tutte queste estrazioni, e specialmente con colla perdita dell’argento vivo, perde anche il cinabro quel vigore naturale, che conteneva in se, e rimane in natura tenera, è debole di forze: quindi è, che si adopera per dipingere intonachi di stanze, mantiene senza difetto il suo colore, ma ne’ luoghi aperti, cose sono i chiostri, le esedre (stanze con finestre) ed altri simili, ove giunge il sole, e la luna a far penetrare i il lume o i raggi, quel luogo, ch’è toccato da questi, patisce, è perduta la forza del suo colore si annerisce. Quindi molti, e specialmente il secretario Feberio, avendo avuto avere sull’Aventino una casa dell’ultima pulizia, fece tingere su tutte le mura de’chiostri di cinabro, ma queste a capo di trenta giorni divennero di un colore cattivo, e disuguale, onde fece subito l’appalto per rimettervi altri clori.
Or se qualcuno sarà più accorto, e vorrà che la tinta del cinabro ritenga il suo colore: quando sarà il muro colorito è asciutto a dovere, con un pennello lo cuopra di c’era punica liquefatta al fuoco, e stemperata con un tantino d’olio : indi con de’ carboni accomodati in un vaso di ferro vada riscaldando bene le mura e la cera, riducendola a goccioline: e con panni netti la strofini, appunto come si fa su i nudi delle statue di marmo. Quest’operazione da’ Greci si dice “cousis”. Or questa copertura di cera punica sa che né lo splendor della luna, né i raggi del sole posano rodere né cancellare i colori in sì fatte pitture.
Or quei lavoratori, che erano nelle miniere d’Esefo, si sono ora trasportati in Roma, perché di queste essendone state scoperte in alcuni luoghi della Spagna, da queste miniere si portano le zolle in Roma, ove si purificano da’ pubblici appaltatori. Stanno le loro botteghe tra i tempi di Flora, e di Quirino.
Si fa un cinabro fittizio con la calce. Or se vorrà alcuni far saggio della sua perfezione, dee fare in questo modo: prenda una lastra in ferro, vi ponga sopra il cinabro, e lo ponga al fuoco finché s’arroventi: quando vedrà cambiato dal fuoco il colore, e annerito, scoprirà d’essere misturato. Ho detto, quanto ho potuto ricordandomi, intorno al cinabro.
La Crisocolla viene dalla Macedonia, e si cava in quei luoghi, che sono vicini alle miniere di rame. Il Minio e l’Indaco mostrano con il loro nome stesso i paesi, ove si generano”.
Press'a poco ripete le stesse cose un luogo di Plinio (Natatural Historia , Libro XXXIII, C. (118-119-120-121-122) dove è confermata anche l'analogia del procedimento pittorico con quello usato per lucidare i marmi (gànosis).
In più qui, trattandosi di un materiale velenoso, viene riportata una precisazione riferita alla sua pericolosità:
“Quelli che lucidano il minio (cinabro) nelle officine, legano il viso con vesciche morbide, per non assorbire col respirare la polvere dannosa e tuttavia vedere al di sopra di quelle.”
Il processo di encausticatura per le statue dipinte con colori a tempera era anche in uso nella bottega di Lisippo (Cagiano de Azevedo, in Boll. Ist. Rest., 5-6; 1951, p. 107). Dipinte a cera, o meglio forse encausticate, sono le stele di Pagasai, modeste opere di artigianato, ma interessanti per la loro tecnica.
Alcuni sono dipinti a tempera, come quello del museo di Firenze, altri invece sono dipinti certamente ad encausto. Fra questi ve ne sono di quelli in cui i colori sono stati spalmati con il pennello (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Collezione Graf, n. 67), altri a spatola (Vienna, ibidem, n. 23).
CINABRO
Nell’antichità romana il cinabro era indicato con il termine minium, da non confondersi con il nostro ‘minio’, rosso di piombo, che invece i Romani chiamavano in genere cerussa usta.
Il cinabro si tratta di un pigmento ottenuto dal minerale naturale corrispondente, dal colore rosso vivo tendente all’aranciato. Dal punto di vista chimico, il cinabro è un solfuro di mercurio (HgS), solitamente impuro in natura, con inclusioni di argille, ossidi di ferro e talvolta bitume. Era conosciuto e molto usato dai Greci, a partire dal XVI secolo a.C., e dai Romani, ma se ne ritrovano tracce già in tempi più antichi in Asia Minore e Cina.
L’estrazione del minerale cinabro avveniva principalmente in Spagna, dalle miniere di Almadén, luogo identificato da Vitruvio.
Esso è il giacimento più ricco di cinabro che si conosca, poiché il tenore medio del minerale supera l'8%, e presenta frequenti zone con tenori dall'8 al 20%.
Raramente si presenta in piccoli cristalli, solitamente si rinviene in masse compatte informi, terrose granulari o efflorescenze. (Fig. 6)
Nel Medioevo, l’utilizzo del pigmento naturale fu soppiantato dal cinabro di sintesi, chiamato Vermiglione.
Nonostante ciò verso il 1470, per iniziativa di Gino Capponi, Seniore della Città di Firenze, furono iniziati dei lavori di estrazione del cinabro, in quanto ritenuto utile alla fabbricazione di pigmenti per le miniature dei codici manoscritti.
L’impresa non ebbe l’esito sperato, visto che gli operai vendevano nottetempo il materiale estratto al di là del vicino confine di Stato.
Pur non rientrando nella categoria dei pigmenti più costosi, il cinabro era comunque soggetto a contraffazione.
I materiali più frequentemente addizionati al pigmento originale erano la polvere di mattone e il minio e alcune fonti inglesi mettevano bene in guardia gli acquirenti dalle adulterazioni. Infatti, uno dei metodi per il riconoscimento di un pigmento non puro consisteva nello scaldare il cinabro con la polvere di carbone: il piombo contenuto nell’ipotetico minio presente si sarebbe depositato sul fondo e, messo a confronto con il pigmento non riscaldato, avrebbe rivelato la sua presenza con un peso maggiore.
A causa del suo contenuto di mercurio, il cinabro è considerato velenoso per l'uomo e l'ambiente. Durante l’antica Roma, schiavi e detenuti venivano mandati a lavorare nelle miniere di cinabro di Almadén, in Spagna: tale pena era equiparata ad una condanna a morte, a causa della scarsa aspettativa di vita dei condannati, costretti a vivere a contatto con questo minerale.
È noto sin dai tempi più antichi il fenomeno dell’annerimento del cinabro all'aperto. Il fattore scatenante di questa reazione è l’irraggiamento solare. Infatti, l’esposizione ai raggi ultravioletti con una lunghezza d’onda variabile tra il 400 ed i 570 nm (area di assorbimento del cinabro) causa la trasformazione della struttura α- HgS trigonale nel corrispondente cubico dal colore scuro.
Altro fattore che potrebbe influenzare il cambiamento di stato del cinabro è la presenza di umidità e di cloruri. L’annerimento è, a volte, parzialmente reversibile ponendo la superficie alterata al buio. In tal caso, risultati migliori sono stati ottenuti nelle pitture murali in cui il pigmento era parzialmente libero in superficie, come nel caso di tempera a uovo o in quelli dove il colore risulta, addirittura, privo di medium (oli di origine vegetale).
Il rosso cinabro era considerato una sostanza sacra e di alto valore estetico tra i Romani: vi si dipingeva il volto delle statue di Giove durante le festività ed era steso in grandi quantità come colore di base delle superfici affrescate, sia negli appartamenti di città sia nelle ville d’otium costruite sulla costa campana.
Era usato anche nella pittura ad olio, specialmente quella artistica. Le analisi chimico-fisiche hanno permesso di individuare il cinabro non solo in codici di età medievale e Rinascimentale (è il caso, ad esempio, della nota Bibbia di Borso d’Este e della magnifica Bibbia in sette volumi, che Papa Giulio II donò a Emanuele re di Portogallo), ma anche in molte altre tipologie di opere, dipinte a fresco, a tempera o a olio su diversi supporti: basti pensare, ad esempio, ai panneggi di alcune figure del Battesimo di Cristo di Piero della Francesca e della Sacra famiglia di Tiziano, alla veste di Cristo nell’Ultima Cena di Leonardo.
La Scapigliata dipinta su tavola di noce, ritenuta opera incompiuta di Leonardo e conservata nella Pinacoteca di Parma, è eseguita a biacca con pigmenti di ferro e cinabro, su preparazione di biacca con verderame, giallo di piombo e stagno, verniciata con ambra inverdita e terra d’ombra. (Fig. 7)
Per quanto riguarda i risultati scientifici, effettuati sul Salvador Mundi, attribuito a Leonardo, si sono indagati i materiali utilizzati, su ben 8 microcampioni prelevti, e si è riscontrata una doppia stratigrafia di gesso e colla per la preparazione, e poi vari tipi di nero, lapislazuli, lacca, bianco di piombo e cinabro per i carnati, e un bel po’ di vetro usato probabilmente come siccativo. (Fig. 8)
Anche la Gioconda, dipinta su una tavola in pioppo, appare in radiografia priva di incamottatura e con strati pittorici talmente sottili da lasciare sulla lastra solo una vaga impronta. Le recenti indagini diagnostiche hanno rivelato che l’imprimitura è applicata con una miscela di olio e colla. Nel volto e nelle mani si registra l’impiego di cinabro, ocra gialla e biacca, mentre le ombre sono rese dalla terra d’ombra. (Fig. 9)
ALCUNE OSSERVAZIONI ALLA “CRITICA”
Durante la trasmissione ,Voyager - RAI 2, del 19 marzo 2012, in cui veniva trasmesso in anteprima ed esclusiva europea la “Ricerca della battaglia di Anghiari di Leonardo”, documentando nel dettaglio i sondaggi e studi condotti nel 2011 dall'ingegner Maurizio Seracini ed il suo team, nel Salone del 500, in Palazzo Vecchio a Firenze, sotto un affresco del Vasari, verso la fine del documentario (vedi al cursore 58,30) fu precisato quanto segue:
“La sorpresa è grande, vengono trovati piccoli frammenti di pigmento che alle analisi al microscopio sembravano compatibili con pigmento rosso”.
“L’attuale direttore dell’Opificio delle Pietre Dure ha dichiarata che l’istituto ha visionato i risultati delle analisi chimiche e lì ha ritenuti corretti”.
“Le analisi hanno portato a due scoperte molto importanti.
La prima frammenti di materiale bianco lattiginoso piuttosto fluido. È carbonato di calcio e ricopre come un velo tutto quello che c’è sotto e quello che c’è sotto è materiale organico.”
“La seconda e più importante scoperta è l’individuazione di una superficie rossa che rappresenta una fluorescenza tipica della lacca un legante che è più assimilabile ad una pittura su tela che ad un affresco (..)
Inoltre sul materiale rosso ci sono delle puntinatura nere. Sono tracce di materiale che è stato steso con un pennello. Il nero ha qualcosa di estremamente particolarmente. Un rapporto chimico fra manganese e ferro al suo interno è invertito rispetto al normale. Non solo lo stesso rapporto così insolito è stato individuato in una recente pubblicazione del Louvre risalente al 2010 riferita a cosa? A Giovanni Battista ed alla Gioconda di Leonardo […] Questo rapporto tra manganese e ferro è riscontrabile il colore nero utilizzato da Leonardo ma c’è un altra coincidenza che anima l’entusiasmo della comunità scientifica. La Gioconda è stata fatta a Firenze come la battaglia di Anghiari negli stessi anni nei quali Leonardo lavorava proprio alla Battaglia di Anghiari.”
Ma solo in data 07.10.2020 nell'Auditorium Vasari della Galleria degli Uffizi, alla presenza del direttore del museo Eike Schmidt, Cinzia Maria Sicca Bursill-Hall, professore ordinario di storia dell'arte moderna dell'Università di Pisa, Francesca Fiorani, docente di storia dell'arte moderna dell'University of Virginia, e Marcello Simonetta, storico e ricercatore di The Medici Archivi Project in cui vennero documentate le ricerche confluite nel libro "La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Dalla configurazione architettonica all'apparato decorativo", pubblicato dalla casa editrice fiorentina Olschki nella collana 'Biblioteca Leonardiana. Studi e Documenti', a cura di Roberta Barsanti, Gianluca Belli, Emanuela Ferretti e Cecilia Frosinini, la dott.ssa Cecilia Frosinini, esperta di Leonardo da Vinci, direttrice del dipartimento Restauro pitture murali dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, assicuro che " non c'è nessuna Battaglia di Anghiari sotto il dipinto del Vasari nel Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio".
La dott.ssa Frosinini, che ai tempi si rifiuto di far parte del comitato scientifico che doveva avvallare la ricerca coordinata dall'ingegner Maurizio Seracini, sostenne che i materiali prelevati nel 2011 da Seracini "sono scomparsi". "L'Opificio delle Pietre Dure, chiese di poter rifare le analisi sui materiali prelevati (che erano stati effettuati da un laboratorio privato) ma questi non vennero forniti perché risultano scomparsi". Inoltre afferma la dott. Forsinini, "quei materiali repertati vennero allora magnificati e addirittura si disse che quel pigmento nero sarebbe stato il nero della Gioconda, Ma si tratta di un'affermazione senza senso, perché per secoli è sempre stato usato lo stesso pigmento da Giotto, a Leonardo a Caravaggio per fare solo alcuni nomi di grandi maestri. In realtà non si tratta di materiali pittorici ma di materiali murali, di frammenti di muro."
In ogni caso, in base alle descrizioni delle analisi chimiche dei materiali rinvenuti, Mauro Matteini, il più famoso esperto chimico nel campo dei Beni Culturali, ha chiarito che non si trattava affatto di materiali pittorici ma semplicemente di elementi comuni a ritrovarsi in murature del tempo». L’evento è stato concluso dal direttore della Galleria degli Uffizi, Eike Schmidt. «Tra gli insegnamenti più preziosi del grande lavoro svolto — ha detto Schmidt — c’è il fortissimo richiamo al rigore della metodologia scientifica: uno strumento imprescindibile per affrontare ricerche su temi così importanti e delicati».
Nonostante tutto ciò con questo studio e ricerca, si può sostenere che i campioni prelevati e corrispondenti a piccoli frammenti di pigmento che alle analisi al microscopio sembravano compatibili con pigmento rosso con una fluorescenza tipica della lacca, possano essere campioni di cinabro. (Fig. 10)
Inoltre per quanto riguarda le puntinature nere trovate sopra i campioni di rosso, assimilabili a materiale che è stato steso con un pennello, si può sostenete che effettivamente potrebbe essere il nero di Leonardo che produceva usando della "feccia di vino" cosi come Vitruvio insegna nel De architectura Libro VII capo X e che di seguito si documenta: (Fig. 11/12)
"De' Neri artificiali
Passo ora a quelle cose, che per mezzo della manipolazione cambiano specie, acquistano la qualità di qualche colore: e primo parlerò del Nero di fumo, l'uso del quale è grande ne' lavori, acciocchè si sappia il modo vero dell'artificio, col quale si prepara la tinta.
Si fabbrica un luogo a giusa di laconico, e s'intonaca di stucco fine. e ben lisciato: avanti al medesimo si costruisce una fornacetta colla comunicazione nel laconico, la bocca della quale dee essere turata con diligenza, acciochè non se ne dissipi la fiamma. Si metta dunque nella fornace la resina: questa accesa manderà per l'impeto del fuoco il fumo per la comunicazione dentro il laconico: il fumo si attaccherà attorno alle mura e alla volta, onde raccolto parte si stempera con gomma per uso d'inchiostro da scrivere, parte serve agli stuccatori per tingere le mura, mescolato pero con colla.
ma se mai non si trovasse pronto si fatto color, acciocchè non s'interrompa per aspettarlo il lavoro, si rimedierà nelle occorrenze in questo modo. Si brucino o fermenti, o schegge di pino: e quando si vedranno diventare carboni, si smorzino, indi si pestino nel mortaio con colla: e così avranno stuccatori un nero niente ingrato. Si potrà anche avere lo stesso, se asciuttando, e cuocendo in una fornace feccia di vino, si adoperi macinata con colla, perché farà un amabile color nero, e di quanto miglior vino sarà la feccia, tanto più si avrà non solo il nero, ma con una tintura d'indaco".
Numerosi studi da parte delle più prestigiose università italiane e mondiali hanno evidenziato che all’interno dei vinaccioli, della buccia d'uva e della feccia di vino, sono contenute le seguenti sostanze:
- Acidi grassi (oleico, stearico, miristico, linoleico, linolenico),
- Acidi fenolici (acido gallico),
- Proantocianidine,
- Sostanze tanniche,
- Flavonoidi (catechina, epicatechina),
- Fenoli (resveratrolo),
- Minerali (calcio, ferro, magnesio, fosforo, potassio, sodio, zinco, rame, manganese),
- Vitamine e antiossidanti: A, B1, B2, B3, B5, B6, E, K, folati, colina, beta carotene.
LA STANZA DEL CINQUECENTO
Il Salone dei Cinquecento, all’epoca il “Salone del Maggior Consiglio”, ovvero il locale dove si tenevano le sedute del Maggior Consiglio della Repubblica. (Fig. 13)
Per la quantità di finestre presenti nella sala e soprattutto per quelle verso la zona riservata a Leonardo, il locale può definito d una "esedra ed altri simili, ove giunge il sole, e la luna a far penetrare i il lume o i raggi, quel luogo, ch’è toccato da questi, patisce, è perduta la forza del suo colore si annerisce" cosi come riportato da Vitruvio nel De architettura Libro VII Capo IX.
Il Vasari è molto chiaro nei suoi scritti: il lato sinistro della parete Est era riservato a Michelangelo, mentre quello destro della stessa parete a Leonardo e, considerando tutte le modifiche che ha subito la sala, poste rispettivamente sopra i seggi dei "buon uomini" e dei "gonfalonieri delle compagnie della milizia".
Infatti nella parete Ovest la presenza di quattro finestre rendeva quasi impossibile la collocazione delle due opere murarie, delle quali sono state ipotizzate delle dimensioni di circa m. 18,00x7,00.
Alcuni studiosi ritengono che il nucleo del dipinto di Leonardo della Battaglia di Anghiari, considerando tutte le modifiche che ha subito la sala, probabilmente si trova nella zona sopra la porta di Sud-Est.
Tratto da “Le vite (1568)” di Giorgio Vasari. “Dicesi che per disegnare il detto cartone fece uno edifizio artificiosissimo che, stringendolo, s’alzava, et allargandolo, s’abbassava”.
GLI ELEMENTI CHE PORTANO A SOSTENERE CHE LEONARDO INIZIÒ A DIPINGERE LA BATTAGLIA DI ANGHIARI SU UN SUPPORTO DI CINABRO
Uno degli elementi importati è l’approfondito e recente studio, risalente al 2018, dello storico dell’arte statunitense Louis Alexander Waldman, che ha rigettato nell’opera “gemella” della tavola Doria,
ogni ipotesi sull’autografia leonardiana, usando anche una certa ironia: “l’inesauribile ottimismo dei cosiddetti leonardisti, tanto spesso accompagnato da una completa mancanza di spirito autocritico”, ha scritto, “è una malattia per cui la scienza moderna non ha ancora trovato cura”). Nel cercare di capire chi possa essere l’autore della Tavola Doria, Waldman ha rivolto la sua attenzione a un’opera, verosimilmente della stessa epoca, che riproduce allo stesso modo la parte centrale della Battaglia di Anghiari.
Si tratta di un’altra tavola, risalente all’incirca al 1563, conservata a Firenze, a Palazzo Vecchio (in deposito dagli Uffizi, nelle cui raccolte la sua presenza è ricordata fin dal 1635, anno a cui risale un inventario in cui il dipinto è citato come opera di Leonardo). Questa opera, sottolinea Waldman, “è unica tra le copie esistenti poiché rende la sottile gradazione di tono nell’area non tinta del modello leonardesco, corrispondente al profilo del cavaliere sul cavallo bianco all’estrema destra della composizione; include anche indicazioni dettagliate dei profili frammentari omessi da altri precedenti copisti e che sono solo accennati nella Tavola Doria”. Si tratta di un dipinto la cui finitura è talmente alta da indicare che, verosimilmente, il suo autore abbia copiato direttamente il celebre murale iniziato da Leonardo, potendo così evidenziare e mettere in risalto anche alcuni dettagli della tecnica adottata dallo stesso, prima che il Vasari cominciasse i lavori nel Salone dei Cinquecento che andarono a coprire l’opera di Leonardo. Lo stesso Waldman aveva proposto di attribuire questa copia della Battaglia di Anghiari a Francesco Morandini detto il Poppi (Poppi, 1544 - Firenze, 1597), uno dei principali artisti del secondo Cinquecento in Toscana. (Fig. 1)
Lo studioso americano ha rilevato nell’opera che riproduce la battaglia alcune particolari caratteristiche: “lo splendore perlaceo delle forme modellate, la liquida lucentezza della pennellata, [...], dando nel contempo alle carni tonalità fresche e rubizze”. E ancora: “in entrambe le tavole [...] ricorrono i medesimi volti cesellati, dai tratti bloccati, simili a maschere eleganti e aggraziate, con una carnagione opaca e rossastra, [...]”.
Essendo del resto noto che il Poppi, in età giovanile, fu un prolifico copista: non dovrebbe dunque costituire sorpresa l’eventualità che abbia copiato anche il celebre murale di Leonardo da Vinci. C’è poi un’ulteriore circostanza interessante: Morandini fu tra gli artisti che collaborarono con Vasari nella realizzazione degli affreschi del Salone dei Cinquecento tra il 1563 e il 1570. Quindi si può sostenere che l’artista abbia copiato l’opera di Leonardo nel contesto di questa importante impresa.
Altro elemento a conferma che Leonardo non usò la tecnica ad encausto è anche la recente ipotesi dello studioso Roberto Bellucci che ha messo in dubbio quasi tutte le versione dei fatti sostenute fino ad ora dalla critica, in quanto giustamente fa notare : “l’encausto prevedeva l’utilizzo di cere, che con una fonte di calore diretto si sarebbero sciolte nuocendo ugualmente all’opera. Dunque, sottolinea Bellucci, se Leonardo avesse utilizzato una tecnica simile, il calore utilizzato avrebbe fatto semmai colare la parte in basso più che quella in alto, più lontana dal fuoco.
È dunque più probabile che l’operazione non sia andata a buon fine a causa di un’incompatibilità tra il supporto e i colori, come notava l’umanista Paolo Giovio, che, verso il 1526, precisa che "manet etiam in comitio curiae Florentinae pugna atque victoria de Pisanis praeclare ad modum, sed infeliciter inchoata vitio tectorii colores iuglandino oleo intritos singulari contumacia respuentis" - La lotta e la vittoria sui Pisani furono celebremente eseguite nell'assemblea della Curia fiorentina, ma purtroppo iniziata dal vizio dello stucco, i colori dell'olio di noce si sbriciolarono e sputarono una singolare ostinazione. (ed. Maffei, pp. 234 s.) Paolo Giovio (Como, 1483 - Firenze, 1552): “nella sala del Consiglio della Signoria fiorentina rimane una battaglia e vittoria sui milanesi, magnifica ma sventuratamente incompiuta a causa di un difetto dell’intonaco che rigettava con singolare ostinazione i colori sciolti in olio di noce”. (Como, 1483 - Firenze, 1552): “
Ma sopratutto da quanto riportato nel “Le vite (1568)”da Giorgio Vasari
“Et imaginandosi di volere a olio colorire in muro, fece una composizione d’una mistura sì grossa, per lo incollato del muro, che continuando a dipignere in detta sala, cominciò a colare, di maniera che in breve tempo abbandonò quella, vedendola guastare”.
Ma gli elementi più importati che comprova che Leonardo inizio a dipingere la Battaglia di Anghiari non con la tecnica ad encausto ma bensì su uno spesso supporto di “mistura” (Si fa un cinabro fittizio con la calce), è quanto riportato nei documenti e libri storici conservati alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze ed all'archivio di Stato in Firenze, Registri del Carteggio della Signoria, in cui si documenta i pagamenti effettuati a Leonardo e non solo, dalla Repubblica per la realizzazione dell’opera.
Come sopra già evidenziato nella storia a Leonardo, l’8 gennaio 1504, gli venne assegnata la sala del Papa in S. Maria Novella già adibita all’uso pontificio, per allestirvi il suo studio e realizzare il cartone preparatorio della Battaglia di Anghiari. Pur trattandosi di un luogo sicuramente non accessibile a tutti e quindi al riparo degli occhi più curiosi ed indiscreti (non certo di quelli del papa), a Leonardo venne affiancato anche un camerlengo della dogana affinché vigilasse e tenesse sotto controllo la sala del papa.
Il 28 febbraio, dello stesso anno, gli furono pagate risme di carta, quaderni fogli reali, biacca alessandrina, bianchetta soda, gesso volterrano, olio di lino, spugna veneziana, trementina e anche cera bianca ed un lenzuolo a tre strati (un panno).
All'interno della sala per prima cosa, realizzo una tavola "sperimentale" in formato ridotto, della parte centrale della stessa Battaglia, probabilmente per rassicurare, chi di dovere, che la nuova tecnica realizzava che successivamente avrebbe realizzato in Palazzo Vecchio, sarebbe stata fattibile ed andata a buon fine.
Per realizzare tale tavola usò uno spesso supporto di "mistura" di cinabro probabilmente acquistato in data 08 aprile 1503 dal minatore "Vante" ed applico la stessa tecnica descritta da Vitruvio nel De architctura Libro VII capo IX.
La prova sull'acquisto del cinabro ci viene tramandata dallo stesso Leonardo con un suo appunto che si potrebbe intendere come acquisto del materiale “Ricordo come a dì 8 di aprile 1503 io Leonardo da Vinci prestai a Vante miniatore ducati 4 d’oro in oro […]
Ricordo come nel sopradetto giorno io rendei a Salaì ducati 3 d’oro, i quali disse volersene fare un paio di calze rosate co’ sua fornimenti, […].
Sicuramente la prova sperimentale andò a buon fine in quanto il materiale impiegato non era falsato.
Si legge anche che Leonardo, oltre che lavori di carpenteria e di falegnameria e lavori murari a suoi assistenti, ricevette, prima del 4 maggio 1504, 35 fiorini larghi d'oro, con l'ingiunzione di finire il cartone entro il mese di febbraio del 1505; ricevette altri pagamenti per il cartone il 30 giugno 1504 (45 fiorini per tre mesi di lavoro).
Successivamente i suoi aiuti (Pietro di Zanobi, Filippo d'Antonio, Benedetto di Luca Buchi e altri) ricevettero pagamenti il 30 agosto per lavori di fabbri e per aver fornito a Leonardo materiali per dipingere oltre a (biacca alessandrina, bianchetta soda, gesso).
Leonardo continuò a ricevere pagamenti nell'ottobre e nel dicembre 1504, e il 30 aprile 1505, quando ricevette 50 fiorini. In quest'ultimo pagamento, oltre ad alcuni assistenti già menzionati, ricevette un pagamento anche un "Ferrando spagnolo dipintore" per colori ed ingredienti comprati per Leonardo (essendo originario proprio di Almadén, la località indicata anche da Vitruvio per la presenza di maggior quantità di miniere di cinabro, i colori ed gli ingredienti si riferiscono probabilmente al cinabro ed alla calce) "i quali Tomaso di Giovanni Masini, un garzone, dovrà macinare per la preparazione delle pitture appunto e per cui verrà ricompensato con la cifra di un fiorino d’oro il 30 agosto 1505".
Il 6 giugno 1505, nel "punto di posare il pennello" il cartone preparato da Leonardo "si stracciò" a causa di un temporale (Madrid, Biblioteca nacional, ms. 8936, c. 2r), anche se questa data non va assunta come data d'inizio della pittura (Pedretti, 1968, pp. 53-66), ma come ricordo di un evento che fece interrompere il lavoro pittorico già intrapreso (Brizio, 1974, pp. 46-50).
“lo stesso pittore Ferrando, insieme con Tommaso di Giovanni Masini "suo garzone", veniva pagato ancora "per dipingere con Lionardo da Vinci nella sala del Consiglio il 31 agosto 1505". (Fig. 18)
I lavori di pittura proseguirono fino al 17 aprile del 1506, quando parte dell’opera già dipinta, dopo essere stata ricoperta con c’era punica data a pennello, nel riscaldarla con dei carboni accesi posti all’interno di bracieri in ferro, a causa del grosso spessore della “mistura” incollata sul muro che comincio a colare, si guasto tanto da essere costretto ad abbandonare l’opera.
ALCUNI IMPORTANTI INDIZI TRAMANDATOCI DA LEONARDO E DAL VASARI.
In una noterella di Leonardo riportata nel Codice Arundel, conservato a Londra si legge:
“Ricordo come a dì 8 di aprile 1503 io Leonardo da Vinci prestai a Vante miniatore ducati 4 d’oro in oro […]
Ricordo come nel sopradetto giorno io rendei a Salaì ducati 3 d’oro, i quali disse volersene fare un paio di calze rosate co’ sua fornimenti, e li restai a dare ducati 9, posto che lui ne de’ dare a me ducati 20, cioé 17 prestaili a Milano e 3 a Vinegia[…]”. (Fig. 20)
Da un passaggio del Vasari nel suo “Le vite (1568)” si riporta:
“Leonardo attendeva molto a cose filosofiche e massimamente alla alchimia, dove formando una pasta di una cera, mentre che caminava faceva animali sottilissimi pieni di vento, ne i quali soffiando, gli faceva volare per l’aria; ma cessando il vento, cadevano in terra. Fermò in un ramarro, trovato dal vignaruolo di Belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scaglie di altri ramarri scorticate, ali a dosso con mistura d’argenti vivi, che nel moversi quando caminava tremavano; e fattogli gl’occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola, tutti gli amici ai quali lo mostrava, per paura faceva fuggire. Usava spesso far minutamente digrassare e purgare le budella d’un castrato, e talmente venir sottili, che si sarebbono tenuto in palma di mano. Et aveva messo in un’altra stanza un paio di mantici da fabbro, ai quali metteva un capo delle dette budella, e gonfiandole ne riempieva la stanza, la quale era grandissima, dove bisognava che si recasse in un canto chi v’era, mostrando quelle trasparenti e piene di vento, dal tenere poco luogo in principio, esser venute a occuparne molto, aguagliandole alla virtù”.
Forse sarà solo un caso, ma è molto curioso che il Vasari avesse voluto evidenziare nella storia di Leonardo, corrispondente al periodo in cui, dopo aver (forse volutamente fallito) nel realizzare l'opera della Battaglia di Anghiari e raggiunto Roma dove venne completamente ignorato da Papa Leone X, il racconto del bizzarrissimo ramarro, che una volta modificato con scaglie di altri ramarri, fattogli occhi, corna, barba ed ali, tanto da sembrare proprio un drago, mettendogli sopra l'argento vivo, collegato al cinabro, Leonardo lo facesse vedere agli amici mettendogli loro tale paura da farli fuggire.
Ricordiamo che Leonardo, concentrando l’attenzione nel rappresentare la feroce battaglia tra i capi degli schieramenti a cavallo per entrare in possesso del vessillo dell’esercito milanese raffigurò il patriarca di Aquileia, Ludovico Scarampo Mezzarota, che era a capo dello schieramento pontificio, con indosso un elmo decorato con un drago. (Fig.21)
Leonardo, probabilmente voleva esprimere il suo documentato dissenso nei confronti della guerra (e di conseguenza anche all'uso del Cinabro, proprio attraverso le figure degli animali ovvero del drago.
Del resto, Leonardo “sapeva di dover realizzare un’opera dal forte impatto politico e con conseguenze nefaste. Si trattava di mostrare attraverso la raffigurazione della Battaglia di Anghiari il trionfo di una Firenze riflessiva, forte dei suoi diritti e delle sue istituzioni, su un esercito di mercenari brutali e spietati”.
Vale infine la pena notare come Leonardo abbia anche voluto ammantare l’opera d’una propria idea personale, il suo rifiuto e il suo odio nei confronti della guerra, da lui definita una “pazzia bestialissima” nel suo Trattato della pittura.
E la Battaglia di Anghiari diventa pertanto, scrive Godart, “una denuncia implacabile della guerra” dalle nefaste conseguenze . Così del resto l’artista scriveva nel Corpus degli studi anatomici: “pensa esser cosa nefandissima il torre la vita all’omo [...], e non volere che la tua ira o malignità distrugga una tanta vita, che veramente chi nolla stima nolla merita”.
A tal proposito si evidenzia che la parola di origine greca cinnabaris era utilizzata per indicare un colore rosso forte, vivace, probabilmente individuabile nel sangue di drago, colorante ricavato dal prodotto resinoso di alcune piante, come il Calamus draco o la Dracaena draco. Già Plinio nella Naturalis Historia XXXIII, C. (118-119-120-121-122) lamentava la confusione terminologica esistente ai suoi tempi e richiamava l’associazione tra il colore rosso e il sangue: il termine cinnabaris indicava infatti un colore rosso intenso, risultato del sangue versato nella lotta ancestrale tra il drago e l’elefante, cioè tra due principi primordiali ed elementari.
Inoltre sempre Plinio nel Naturalis Historia Libro XXXIII, C. (118-119-120-121-122)
“Quelli che lucidano il minio (cinabro) nelle officine, legano il viso con vesciche morbide, per non assorbire col respirare la polvere dannosa e tuttavia vedere al di sopra di quelle.”
Negli appunti di Leonardo si legge:
“li Medici mi creorno e destrusseno".
Leonardo con questa frase volle evidenziare che, grazie ai buoni uffici del padre, legato ai Medici, e a quelli che univano il Verrocchio a questa stessa famiglia, ottenne le prime commissioni pubbliche e che "stette da giovane con il magnifico Lorenzo de' Medici, et dandoli provisione per sé il faceva lavorare nel giardino sulla piaza di San Marcho a Firenze", tanto che la sua formazione in gioventù fu influenzata dai valori della famiglia de’ Medici che a quel tempo coltiva le ambizioni di Cosimo de’ Medici sull'idea di creare in Firenze un fulcro per la diffusione delle teorie di Platone in terra italiana, aumentando così il prestigio culturale e politico della città, tanto da averne fondato l'Accademia neoplatonica.
Purtroppo successivamente le cose cambiarono con l’avvento al potere di Giovanni De’ Medici diventato poi Papa Leone X.
Con queste cinque parole Leonardo riesce a riassumere tutta la misteriosa storia celata dietro uno dei suoi dipinti più importati, ma soprattutto il dipinto più sofferto della sua controversa storia di genio ed artista del Rinascimento.
I PERSONAGGI
Biografie
https://www.treccani.it/enciclopedia/attavante-degli-attavanti_%28Enciclopedia-Italiana%29/
Chi era il Vante ricordato da Leonardo?
Era Attavante degli Attavanti - Miniatore.
Attavante di Gabriello di Vante di Francesco di Bartolo degli Attavanti nacque, a quanto sembra, nel 1452, in Castelfiorentino di Valdelsa,
Era un minatore che con la sua arte ornamentale decorava i manoscritti e i libri antichi.
In origine il termine di miniatura aveva un significato più ristretto: la miniatura era l'immagine realizzata per decorare le lettere iniziali dei capitoli in un manoscritto, tradizionalmente di colore rosso per la resa del carattere. Il termine deriva verosimilmente dal latino “minium”, ovvero il cinabro, un particolare minerale dal quale si ricavava il colore rosso.
Le poche notizie che di Attavante ci dà il Vasari non sono molto chiare. Infatti egli lo ricorda in più d'una delle sue Vite, ma sempre di sfuggita e con imprecisione;
Con maggiore attendibilità è stato fatto il nome del Verrocchio, di cui Attavante, in una sua composizione, ha copiato il celebre Battesimo degli Uffizî; e questa ipotesi trova conferma nel fatto che tra lui e Leonardo da Vinci dovettero esistere vincoli di amicizia, nati forse nella stessa bottega del Verrocchio.
Notevole fu del pari l'operosità spesa da Attavante a pro' della biblioteca di Lorenzo il Magnifico, e ne resta documento la larga serie di codici da lui decorati, che tuttora si conservano nella Mediceo-Laurenziana. Attavante ebbe anche parte importante nella decorazione della magnifica Bibbia in sette volumi, che Papa Giulio II donò a Emanuele re di Portogallo e che è stata ai nostri giorni rinvenuta nel monastero di Belem presso Lisbona.
Un documento riferito da G. Gaye nel suo Carteggio inedito d'artisti (Firenze 1839-1840) informa inoltre che Attavante, fu uno degli artisti chiamati nel 1503 a giudicare ove fosse da porsi il David di Michelangelo.
Le più tarde memorie di lui non vanno oltre il 1517.
https://it.wikipedia.org/wiki/Fernando_Y%C3%A1%C3%B1ez_de_la_Almadé
Chi era il "Ferrante spagnolo dipintore"?
Fernando Yànez de Almadén 1475 - 1537) è stato un pittore spagnolo, considerato uno dei maggiori introduttori del Rinascimento in Spagna.
Le poche notizie esistenti che documentano la biografia dell'artista, affermano che Fernando Yáñez, di possibili origini moriscos, nacque nel piccolo paese di Almadén, luogo identificato da Vitruvio per la maggior presenza di miniere di cinabro, nell'attuale provincia di Ciudad Real.
Dopo una prima tappa formativa a Valencia, Yáñez intraprese quasi sicuramente un viaggio in Italia allo scopo di documentarsi sulle novità artistiche della penisola; le circostanze del viaggio e le città da lui visitate sono tuttavia incerte ed in parte ipotizzabili, poiché poco documentate. Il suo stile è però evidentemente influenzato dalle opere di Perugino, Raffaello, e di Leonardo da Vinci, da cui Yáñez ha attinto la tecnica dello sfumato e la raffigurazione quasi enigmatica dei volti.
Un documento risalente al 1505 afferma che nel gruppo degli artisti che assistettero Leonardo nella realizzazione della Battaglia di Anghiari a Palazzo Vecchio vi era un «Ferrando Spagnolo, pittore», identificato, a seconda dai critici, nello stesso Yáñez.
CONCLUSIONI
Partendo dalle analisi effettuate dall’ing. Maurizio Seracini e da quanto documentato con il presente studio e ricerca, si può sostenere che è stato lo stesso genio Leonardo Da Vinci nonché lo storiografo Giorgio Vasari a lasciarci la traccia per poter fare una valida ipotesi di come andarono i fatti e quale fu la particolare tecnica adottata per iniziare a dipingere la grande opera della Battaglia di Anghiari, ma soprattutto perché (forse per volere dello stesso Leonardo) non andò a buon fine.
Pertanto non essendo un “Autore del Centro” , ma solo “uomo di periferia“ lascio a Voi Lettori l’onere di trarre le debite conclusioni.
FONTI E BIBLIOGRAFIA
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(M. Cagiano de Azevedo)
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